Si protesta meno perché si investe meno. Per la prima volta da nove anni, da quando cioè il fenomeno viene monitorato, gli impianti contestati sono diminuiti. Una buona notizia? Non proprio, a sentire gli esperti del Nimby forum. Anzi. Ad invertire la tendenza non sono né un improvviso cambio culturale, né un rinato confronto territoriale. Tantomeno lo snellimento burocratico. Piuttosto il calo degli investimenti, dovuto alla recessione, ma anche alla crisi “di affidabilità e reputazione dell’Italia”. Un paese in cui è difficile aprire una fabbrica, fare una strada, scavare un tunnel, mettere una pala eolica senza incappare nella burocrazia asfissiante, nei veti della politica, nel gorgo dei permessi, nelle sospensive dei Tar, nelle liti tra enti locali e Roma. E certo anche nelle proteste dei cittadini, spesso però lasciati soli.
I dati che oggi il Nimby forum – un progetto di ricerca attivo dal 2004, promosso dall’associazione no profit Aris – presenterà a Roma, nel suo IX osservatorio, raccontano dunque
un’Italia meno litigiosa. Certo, lo sviluppo di infrastrutture energetiche, viarie e per il trattamento dei rifiuti continua a incontrare difficoltà e ritardi. Intoppi che il governo Renzi intende superare con il decreto Sblocca-Italia, atteso entro luglio. Eppure ci si oppone meno: 336 impianti contestati nel 2013, contro i 354 del 2012 (-5%): dalla Tav alla Brebemi, dal cementificio di Pescara alla discarica di Chiaiano, dalla centrale idroelettrica di Maratea al gassificatore di Albano Laziale, dall’impianto eolico di Pachino all’inceneritore di Civitavecchia.
Un primo calo dei focolai dopo anni di boom, dunque. «C’era da aspettarselo, visto quanto
racconta il Censis nel suo ultimo rapporto, un crollo degli investimenti diretti in Italia del 58%. Dato cauto se confrontato con quello delle Nazioni unite: meno 70% tra 2011 e 2012», spiega Alessandro Beulcke, presidente di Aris. «Burocrazia e nimby (“ not in my back yard”, ovunque fuorché nel cortile di casa mia) sono un cocktail micidiale. Basti pensare a quanto accaduto in Sicilia, dove la Shell rinunciò al rigassificatore, dunque ad un investimento di 800 milioni di euro dopo averne già spesi 30, perché l’allora governatore Lombardo non firmò il decreto regionale, nonostante le altre autorizzazioni fossero arrivate, comprese quella del ministero dell’ambiente. Da questo punto di vista, ci aspettiamo un segnale forte e non più rinviabile con lo Sblocca-Italia».
A calare sono soprattutto i nuovi casi di proteste. Nel 2013 ne sono stati censiti solo 108 dai 152 del 2012. Il totale – pari a 336, come detto – è dunque composto di vecchi e nuovi focolai. Al top c’è il comparto elettrico (63,4% del totale dall’11,6% di nove anni fa). A seguire rifiuti (25,3%) e infrastrutture (9,5%, incidenza raddoppiata dal 2011 al 2013). Curiosamente, a trionfare nel comparto elettrico sono le centrali a biomassa (ben 111 contestate). Ciò si spiega con la loro capillarità sul territorio italiano, incoraggiata anche dagli incentivi fiscali. Ma il fatto che 153 casi (il 46% delle proteste 2013) si riferiscano alle fonti rinnovabili che sembrano godere di consenso popolare – tra biomasse, eolico, idroelettrico e fotovoltaico, la dice lunga sulle radici profonde dello scontento. Mosso da paure per qualità di vita, incompatibilità ambientale, ripercussioni sulla salute, ma anche speculazione e sostenibilità economica.
Quasi un terzo delle proteste del 2013 si concentra del nordest (Veneto e Lombardia), ma
l’Abruzzo balza al quinto posto (dopo Toscana ed Emilia Romagna), per via della ricerca di idrocarburi. Chi protesta? Non solo i comitati popolari (un terzo), ma anche – per metà addirittura – la politica nazionale (25%) e locale (24%). Rispetto alle associazioni ambientaliste (14%) e quelle di categoria come i sindacati (5,3%), la politica e i “pareri vincolanti” della burocrazia sono il vero tappo. Da far saltare.
La Repubblica 09.07.14