Il discorso di ieri del premier Matteo Renzi a Strasburgo mi ha colpito moltissimo. Non vorrei osservarlo da una prospettiva strettamente politica, e vorrei anche, per una volta, che i cinici di turno – che trovano difetti in tutto e hanno tradotto il sarcasmo in una visione del mondo – tacessero un istante. Abbiamo chiesto a lungo agli uomini politici di dire qualcosa in più, di usare altre parole, di spostare l’orizzonte da un piano soltanto pratico (o, quando va peggio, utilitaristico) a qualcosa di diverso e più alto. Se questo accade, anziché esserne soddisfatti, lo liquidiamo come retorica. A me pare che le parole di Renzi ieri fossero diverse, e perciò importanti. Partiamo dall’aspetto più esteriore: ha citato il mito classico, la letteratura, la grande tradizione culturale europea. Non è scontato. Non mi sembra nemmeno che fosse citazionismo fine a sé stesso: parlando della staffetta Grecia-Italia, Renzi ha spostato l’asse dalle difficoltà economiche di entrambi i Paesi alla loro centralità nella storia d’Europa. E parlando più in generale di Europa ha toccato il nodo essenziale: perché questa parola ci dice così poco? Perché ci annoia? Perché non ci scalda? Non è solo questione di ridursi a un’espressione geografica, a un punto di Google Maps. C’è di più. Se un’idea geografica, un confine, uno spazio comune non riescono a muovere i sentimenti, le passioni, non riescono a produrre un senso di appartenenza, sono lettera morta. O burocrazia. Grandi intellettuali europei, da Cees Nooteboom a Petros Markaris al nostro Claudio Magris, sono intervenuti a più riprese per difendere un’Europa che fosse anche qualcos’altro, oltre ai parlamenti e alle banche. Il continente e la sua comunità ideale non possono proiettarsi sul futuro se non scommettono anche – o soprattutto – su ciò che tiene insieme Parigi e Atene, Berlino e Amsterdam, Roma e Madrid. La storia, la bellezza, le cattedrali, le piazze, i libri, la musica, il passato e il presente di uno spazio ampio in cui un ventenne del 2014 si sposta con la stessa disinvoltura con cui si sposterebbe in quartieri di una sola città. Pensare l’Europa come un Erasmus permanente – di giovani e di adulti: non è questa la vera sfida? Pensare all’Europa come a un patrimonio comune, condiviso, di cui siamo figli per avviarci a diventare padri. In questo senso, il riferimento fatto da Renzi al figlio dell’eroe greco Ulisse, Telemaco, non credo sia legato solo a una prospettiva generazionale, o alla chiave psicanalitica dell’ormai celebre saggio di Massimo Recalcati (Il complesso di Telemaco).
Potrebbe, o dovrebbe, essere qualcosa in più. Potrebbe, o dovrebbe, legarsi a domande fondamentali: che cosa facciamo dei padri, e del passato? La ricerca di ciò che sta alle spalle ci rende prigionieri o più saggi? E ancora: di quali padri vogliamo essere eredi? La scelta più determinante è questa, e mi pare, negli ultimi decenni italiani, la meno considerata. Abbiamo preferito i padrini ai veri padri, i padroni ai maestri, la complicità all’autorevolezza. E ci siamo ritrovati sopra alle teste un pantheon alla rovescia di carrieristi e di mediocri che hanno protetto solo sé stessi. Il Telemaco utile al futuro dell’Italia e dell’Europa è un Telemaco che, prima di partire per il viaggio di ricerca, sceglie a quale padre andare incontro. Arriva lì, ascolta la sua storia, la raccoglie, non se ne fa ingabbiare. La riceve, la esplora, ma solo come punto di partenza per cominciare la propria. E diventare, a sua volta, un padre.
L’Unità 03.07.14