Matteo Renzi a Strasburgo ha parlato per venti minuti. Eppure i discorsi sono stati almeno quattro, uno più importante dell’altro. Il primo è stato il discorso con cui il premier ha cercato di ricordare all’assemblea che l’Europa non è solo un braccio di ferro sui soldi. Ma è anche e soprattutto la ricerca di una identità e di «un’anima».
Il secondo discorso è stato quello, mai effettivamente pronunciato, a cui però ha ritenuto di dover rispondere polemicamente il capogruppo dei Popolari, il tedesco Manfred Weber, invitando perentoriamente l’Italia a rispettare il Patto di Stabilità, che peraltro Renzi non ha mai detto di voler disattendere.
Il terzo è stato la risposta giustamente secca del presidente del Consiglio sui «pregiudizi» anti-italiani di cui Weber aveva appena dato ampia prova. Il quarto discorso non l’ha pronunciato Renzi ma il neo-eletto capogruppo dei socialisti europei, Gianni Pittella, quando ha ricordato al Ppe che, senza un accordo sulla flessibilità, sarebbe saltato anche il consenso del Pse sulla nomina di Juncker.
Ci sarebbe poi addirittura un quinto discorso, quello che Renzi non ha voluto fare a Strasburgo cancellando la tradizionale conferenza stampa internazionale di apertura del semestre di presidenza per non perdersi la possibilità di intervenire a “ Porta a Porta”: una brutta gaffe che contraddice le nobili parole pronunciate poco prima. Telemaco, per usare la sua metafora, se la sarebbe risparmiata.
Ma quello che conta davvero è l’apparente dialogo tra sordi che si è svolto ieri in Parlamento europeo e che darà l’impronta non solo al semestre di presidenza italiana ma anche al dibattito che monopolizzerà l’Europa per i prossimi anni. Perché quei sordi, in realtà, ci sentono benissimo. E, facendo finta di non capirsi, si lanciano messaggi molto chiari.
Il messaggio lanciato da Renzi nel suo discorso, dove non a caso non ha pronunciato neppure una volta la parola “flessibilità”, è in realtà di portata strategica. Attenzione, dice in sostanza il leader italiano, noi stiamo a discutere sui punti decimali del deficit o del debito. Ma un’Europa che si chiude in questo tipo di dibattiti è destinata a soccombere nella competizione politica ed economica con le altre potenze mondiali che varano programmi di investimenti giganteschi, mantengono ritmi di crescita per noi inarrivabili, e affermano in modo sempre più deciso ed aggressivo la propria identità politica sulla scena planetaria. Se non ci adeguiamo al passo del resto del mondo, non è solo l’Italia che sprofonda, ma tutta l’Europa, con la Germania in testa.
La risposta di Weber è altrettanto importante, perché dà la misura delle difficoltà che la presidenza italiana dovrà affrontare. Da una parte, infatti, c’è l’eterno, e non sempre ingiustificato, pregiudizio nei confronti del nostro Paese. La diffidenza, molto tedesca, che qualsiasi discorso declinato in italiano, per quanto nobile, per quanto alto, nasconda in realtà una richiesta di soldi e, in definitiva, una fregatura. La seconda, e più preoccupante, difficoltà è quella di riuscire a far ragionare l’Europa in modo strategico. Si direbbe che il danno peggiore dei parametri di Maastricht e del Patto di stabilità non sia nella validità o meno dei limiti che impone, e neppure nella scelta del rigore finanziario,
ma nella miopia un po’ solipsistica a cui ha condannato l’Europa per vent’anni in una logica claustrofobica.
Tutti presi a farci le pulci l’un l’altro, rischiamo di non accorgerci delle minacce che arrivano dal di fuori e delle sfide che stiamo perdendo senza neppure rendercene conto.
Il terzo discorso, la risposta di Renzi a Weber, merita di essere menzionato non solo perché dà la misura di una leadership che non intende farsi dare lezioni, ma perché rimanda ad un altro epico scontro tra un premier italiano e un capogruppo tedesco che segnò la precedente presidenza dell’Italia. Nel 2003 il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, del Ppe, e il capogruppo era Martin Schulz, del Pse. Anche Schulz attaccò duramente Berlusconi. Ma, invece di una risposta articolata e argomentata come quella che ieri Renzi ha dato a Weber, si sentì dare del «kapò»: un insulto gratuito e xenofobo che dimostrava solo la mancanza di argomenti di Berlusconi e la sua totale incomprensione di che cosa sia l’Europa e di quale sia, appunto, la sua anima.
Non è un caso se ieri, undici anni dopo, Schulz sedeva accanto a Renzi come presidente del Parlamento
europeo, mentre Berlusconi si trova affidato dalla Giustizia ai servizi sociali.
Il quarto discorso, il primo pronunciato da Gianni Pittella come capogruppo dei socialisti europei, ci riporta al braccio di ferro sui conti pubblici che sarà il tormentone della presidenza italiana. Ma ci fa capire anche come il nuovo ruolo del Parlamento europeo stia già cambiando in profondità le regole del gioco politico in seno alla Ue. Se il Ppe vuole un accordo con i socialisti per governare l’Europa, dice in sostanza Pittella, deve anche tenere conto degli impegni che i socialisti hanno preso con i loro elettori.
La nuova accountability democratica, cominciata con la designazione
di Juncker a presidente della Commissione, mette fine alla schizofrenia consociativa della vecchia Europa in cui i leader nazionali e i partiti politici governavano per consenso, ma poi si ritenevano liberi di polemizzare platealmente a beneficio dei propri elettori rinnegando in pubblico gli accordi appena conclusi in privato. Ed è, quella, un’Europa di cui certamente non sentiremo la mancanza.
La Repubblica 03.07.14