La destra estrema di Farage che, in segno di sfida, volta platealmete le spalle, mentre nell’aula di Strasburgo risuonano le note dell’Inno alla gioia, non compie solo un gesto volgare, che stride con quel senso delle istituzioni che sempre dovrebbe scandire la vita dei parlamenti democratici. Annuncia anche che per le accanite forze dell’antipolitica un fronte nuovo si è aperto, ed è dislocato dentro il cuore delle istituzioni europee.
Il vecchio Hegel auspicava la pub- blicità dei lavori parlamentari e cele- brava le sedute descritte dalla stampa come una grande occasione per la crescita della società civile.
Pensava che il potere, sottoposto alla valutazione dell’opinione pubblica informata, operasse come «un grande spettacolo che educava egregiamente i cittadini». Quel sistema che connetteva il funzionamento degli organi della rappresentanza con la vigilanza critica della sfera pubblica, pare sempre più un paradisiaco mondo fantastico, che stride con le infernali cadenze della antipolitica di esportazione coltivata dalle destre europee.
Se per Hegel «la pubblicità è il maggiore mezzo di educazione» (che suppone deputati che parlano tra loro sapendo «che devono servire da modello» per la cittadinanza che sta fuori il palazzo e va depurata da interessi e bisogni troppo angusti), per certi interpreti della antipolitica odierna, abituata al clima focoso della campagna elettorale permanente, quel momento di pubblicità per cui «le camere si connettono con il resto dell’opinione pubblica» cede ad ogni velleità pedagogica ed esalta invece la demagogia più sfacciata, la propaganda più becera, il gesto più rozzo. Un gesto in politica non è mai solo un gesto. Ha anche un significato sintomatico che rivela altre sofferenze che rimangono più nascoste.
Per questo la gazzarra degli uomini di Farage è anche un inquietante termometro del preoccupante livello di guardia cui è giunta in Europa la dialettica politica. E bene ha fatto il movimento di Grillo, che una formazione di destra radicale certamente non è, a dissociarsi dalle trovate degli scomodi alleati inglesi. Il problema di fondo però resta. Che senso ha per un non-partito trasversale (che raccoglie anche fette rilevanti di un consenso di sinistra) accasarsi con certe squallide figure e poi farsi venire gli scrupoli delle anime belle dinanzi alle loro prevedibili intemperanze?
I movimenti populisti d’Europa sono tutti contaminati da un vizio d’origine. È certo lecito inveire contro le élite e aggredire le forme tradizionali della politica. Ma, quando si partecipa alle consultazioni e con il metodo democratico si raccolgono milioni di voti eleggendo schiere di deputati, si fa parte a pieno titolo delle disprezzate élite del potere. E non è più lecito agire dentro il palazzo con la intemperanza dei movimenti di protesta che annunciano il crollo del sistema o simulando la ingenuità dei semplici cittadini che esercitano un controllo sulle azioni del potere senza però sporcarsi le mani con l’onere delle scelte di governo.
Il male oscuro dell’Europa però non è la semplice antipolitica che irrompe come dialetto eccentrico e che a tratti si fa intollerante. Questa rude modalità espressiva, che rompe gli schemi abituali del confronto, è solo una manifestazione sintomatica. Il grande malato europeo rimane la crisi sociale che da sette anni colpisce e non trova le risposte adeguate, possibili ormai solo a livello continentale. La politica è ovunque travolta dal disagio sociale ma non riesce a rintracciare le condizioni culturali della propria autonomia. Eppure un ritorno della politica-progetto è indispensabile per spezzare il paradigma neoliberale che vede proprio nella politica che governa i processi una profonda irrazionalità.
Il liberismo, che vede nella politica autonoma dalle potenze del capitale una completa follia, e il populismo, che combatte contro lo spazio della rappresentanza in nome di spontanei e sempre genuini sentimenti coltivati dal basso, sono atteggiamenti tra loro speculari. Entrambi questi paradigmi lottano per impedire che la politica ritrovi una funzione e riconquisti cioè una autonomia che la riscatti dalla subalternità rispetto alle sentinelle del mercato e della finanza che con la mitologia dello Stato minimo hanno infranto il costituzionalismo europeo dei diritti.
E in questo accanimento contro la ricostruzione di una politica che con autorevolezza torni a governare i processi sociali con misure di giustizia e di eguaglianza, gli euroscettici di piazza non sono poi così diversi dagli euroscettici di palazzo. In comune hanno l’avversione per ogni consolidamento delle istituzioni dell’Europa politica vista come condizione preliminare per uscire dalla crisi e dal malessere sociale sconfinato. Contestando Beethoven l’estrema destra europea fischiava contro il ritorno della politica e voltava le spalle al futuro.
da L’Unità