Da una parte una contabilità che si fa ogni giorno più preoccupante, dall’altra una Unione Europea che al massimo si è limitata a qualche buon proposito espresso sempre e soltanto a parole. Da una parte un impegno concreto, oneroso, che ha permesso di salvare migliaia di vite umane anche a costo di spendere milioni di euro sottratti a bilanci che non tornano mai in tempi di crisi e spending review, dall’altra istituzioni continentali che hanno già spiegato di non essere disposte ad aprire i cordoni della borsa, come se il problema immigrazione riguardasse soltanto l’Italia e non la frontiera meridionale dell’Unione. Sullo sfondo, quell’allarme sollevato un mese fa dal direttore centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, Giovanni Pinto, ascoltato in audizione dalle commissioni Difesa ed Esteri riunite del Senato: «Un nostro esperto immigrazione a Tripoli parla di 800mila presenze in territorio libico pronte a partire verso l’Europa» ha detto Pinto, sottolineando che i migranti sono «eritrei, somali, sudanesi, senegalesi, gambiani». Un esodo potenziale favorito dal fatto che «in quel paese c’è la percezione di assoluta mancanza di controllo e rischiamo in prospettiva di vedere aumentare sensibilmente il nu- mero di clandestini. In Libia non c’è un primo ministro, non c’è alcuna compagi- ne governativa, non ci sono ministri».
Ci vorranno ancora diverse settimane prima che la nuova commissione europea venga costituita e per verificare se eventualmente possa esserci un cambio di linea, per ora la linea di Bruxelles è quella ribadita nei giorni scorsi dal Commissario europeo uscente agli Affari Interni, Cecilia Malmström, in una intervista al Wall Street Journal: «sono piena di ammirazione per il piano Mare Nostrum che ha salvato migliaia e migliaia di vite umane – le sue parole – Ma sostituire questo piano d’intervento con Frontex è impossibile. Non abbiamo i soldi». Tradotto in parole semplici, l’Europa non ha intenzione di destinare ulteriori fondi per il rafforzamento dell’agenzia europea fondata nel 2004 il cui compito, da statuto, sarebbe quello di «agevolare e rendere più efficace l’applicazione delle misure dell’Ue, esistenti e future, relative alla gestione delle frontiere esterne, assicurando il coordinamento delle azioni degli stati membri» e di fornire «il sostegno tecnico e le conoscenze specialistiche di cui necessitano» e soprattutto promuovere «la solidarietà tra i paesi membri».
Discorso che evidentemente non sembra riguardare l’Italia visto che dall’ottobre scorso, l’Unione Europea non ha di fatto battuto un colpo a sostegno del nostro paese e del suo impegno nel canale di Sicilia. Eppure i numeri fotografano senza ombra di dubbio il lavoro delle nostre forze armate: dal momento del suo varo ad ottobre scorso, dopo la strage in cui persero la vita quasi 400 persone, le navi impegnate nell’operazione Mare Nostrum hanno recuperato in mare 55.915 persone (i dati sono aggiornati a ieri) di cui 43.463 uomini, 6.003 donne e 6.449 minori assicurando alla giustizia più di 200 scafisti. Risultati ottenuti attraverso l’impie- go costante di sei unità navali, due elicot- teri e tre velivoli (di cui uno senza pilota di tipo Predator) a costante monitoraggio di un tratto di mare ampio circa 71mila metri quadrati, un’estensione pari a circa tre volte quella della Sicilia. Uno spiegamento di forze che all’Italia costa fra i6 e 19 milioni di euro al mesee che negli otto mesi di servizio ha già impiegato risorse quasi pari al bilancio di Frontex per l’anno in corso, fissato a 98 milioni di euro. Solo che se i risultati di Mare Nostrum sono sotto gli occhi di tutti, quelli di Frontex sono tutti da verificare. Anche per questo, tre settimane fa, il ministro dell’Interno Angelino Alfano, in una telefonata con il Commissario europeo uscente agli Affari Interni, Cecilia Malmström, aveva espresso la «necessità di una exit strategy da Mare Nostrum, che preveda tempi e scadenze certi, in un’auspicabile collaborazione con l’Unione Europea». E la risposta, come abbiamo visto, è stata negativa su tutta la linea.
Come se il fenomeno migratorio in arrivo dall’Africa del Nord e dal Medio Oriente fosse solo un problema italiano. Un problema che, peraltro, sembra destinato ad aggravarsi vista la crescente instabilità dell’area. E lo dicono ancora una volta i numeri: da gennaio ad aprile, secondo i dati forniti dal vicedirettore di Frontex Arias Fernandez, i migranti approdati in Italia dopo aver attraversato il Mediterraneo sono stati 26.220. Ciò significa che rispetto allo stesso periodo del 2013 gli sbarchi sono aumentati dell’823%. Il numero sale poi a 36mila, secondo quanto riferito dal ministero dell’Interno, se si considera il periodo gennaio-maggio. Numeri che sono tornati ad aumentare, quindi, e che hanno già raggiunto dimensioni paragonabili a quelle del 2011 quando l’emergenza si fece insostenibile sulla scorta dell’instabilità causata dall’esplosione delle cosiddette primavere arabe. Nel 2002, infatti, i migranti che avevao raggiunto le nostre coste erano stati 23.719, dato poi sceso nel 2003 a quota 14.331 per e a 13.635 nel 2004. Un picco è stato registrato ancora nel 2005 quando sono sbarcati 22.939 persone. Gli sbarchi sono rimasti pressoché costanti sulle 20mila presenze sia per il 2006 che nel 2007 mentre nel 2008 la cifra è schizzata a 36.971 persone. In questi dodici anni il minor numero di sbarchi è quello relativo al 2009 e 2010 quando sono arrivati rispettivamente 9.573 e 4.406 migranti. Ma se il fenomeno sembrava essersi fermato o comunque aver rallentato il flusso di sbarchi, nel 2011 ha raggiunto il picco maggiore: 64.261 migranti sbarcati in Italia da gennaio e dicembre contro i 13.267 del 2012. Ma già nel 2013 il trend si è invertito precipitosamente per un totale di 42.925 ingressi via mare.
da L’Unità
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