Dopo giorni di trattative convulse, l’esito del vertice europeo è lontano dalle aspettative dei giorni scorsi: la sostanza del patto di stabilità non cambia, l’apertura di una fase più centrata sulla crescita genericamente affermata. Nemmeno sulla questione migratoria il vertice ha segnato un significativo cambiamento di agenda. L’impressione è che, scampato il pericolo delle recenti elezioni — dove i partiti antieuropeisti non hanno fatto saltare il banco — i decisori politici non siano riusciti a cambiare la logica che li ha guidati negli ultimi anni.
Il problema sappiamo qual è: l’Unione Europea è e rimane una forma istituzionale di secondo livello. Il che comporta che il legame esistente tra il cittadino e i suoi rappresentanti — già molto usurato sul piano nazionale — finisce per diventare sottilissimo. Condizione che si coglie plasticamente guardando la trattative di questi giorni: dove, con un Parlamento appena eletto su base universalistica, i veri attori in campo restano i primi ministri dei governi nazionali.
In questa cornice istituzionale, la ratio dell’azione politica è chiara: si affrontano le questioni europee pensando alle elezioni nazionali. Ciò spiega perché l’Europa — che pure si è data il vincolo di una moneta unica e di una politica monetaria centralizzata — finisce per essere la combinazione tra una tecnocrazia che tende a diventare autoreferenziale e equilibri politici, precari e contingenti, costruiti tra interessi non solo diversi — il che è normale per una società avanzata — ma troppo spesso incapaci di riconoscere presupposti comuni.
Dietro la discussione sulla flessibilità circa l’interpretazione dei trattati si nasconde la questione che, ancora in questi giorni, è accuratamente evitata: come è possibile fare reali passi in avanti per concretizzare l’idea che sottende la stessa idea di Unione, e cioè che «il tutto è superiore alla parte» nel senso che esistono vantaggi — di ordine materiale e spirituale — che derivano dallo stare insieme?
La teoria dei giochi ci aiuta a capire la natura del problema. Ci sono situazioni, come quella nella quale si trovano gli Stati europei, in cui una razionalità guidata dal proprio interesse immediato produce un risultato sub-ottimale. La teoria ci dice anche che è la mancanza di comunicazione tra i giocatori ad impedire di adottare quella modalità cooperativa che produce vantaggi per tutti. Ed in effetti, anche se si parlano, i capi di Stato europei sembrano non intendersi. Ciascuno preoccupato delle conseguenze che le decisioni prese producono nel breve termine presso la propria opinione pubblica. Ma in questo modo, oltre ad alimentare la reciproca diffidenza — i tedeschi pensano che i Paesi indebitati siano poco affidabili mentre questi ultimi sospettano che la Germania voglia approfittare della sua posizione di forza — si finisce per perpetuare la situazione così come è, con tutti gli squilibri che ben conosciamo.
Se ne esce solo cambiando lo schema di gioco, secondo la strada indicata da Jurgen Habermas, il più importante filosofo europeo vivente. È da qualche mese che Habermas denuncia con forza il gravissimo deficit politico di cui soffre oggi l’Europa.
L’idea della politica nasce nella polis , cioè nella città. Ci può essere politica, tanto più politica democratica, solo se si riconosce una comunanza. Per questo, come ammonisce Habermas, per uscire dalla trappola in cui si è infilata, l’Europa ha urgentissimo bisogno di riconoscere che non c’è politica a prescindere dal principio di solidarietà. Un tale termine significa in solido. Proprio da qui viene l’idea moderna di società, derivante da socius — che decide liberamente di assumersi, in solido con altri, una comune responsabilità, al di là dei vincoli affettivi e di sangue. Habermas è esplicito nel dire che non ci può essere società europea se non si riconosce una solidarietà originaria come base necessaria per quella politica di cui tutti denunciano la mancanza. Se si prescinde, cioè, da un bene comune che non è generico buonismo, ma la capacità di tradurre in azioni concrete l’idea declamata retoricamente che il legame che abbiamo deciso di assumerci è capace di tradursi in vantaggio per tutti. Se non parlano di questo, i vertici tra i capi di Stato negano nei fatti i principi che affermano.
Siamo all’inizio di una legislatura europea. Lo spettacolo di questi giorni dà ragione, una volta di più, a Habermas: non è possibile compiere i passi in avanti che i cittadini e la ragionevolezza chiedono senza dotarsi di un principio guida di natura politica. Che impegni tutti: i Paesi forti e quelli più deboli. E verso cui vengano modellate le graduali innovazioni istituzionali e politiche di cui abbiamo bisogno.
Storicamente non si conoscono forme politiche nate senza riferimento a un’idea di solidarietà. Se non quelle sorte attraverso la guerra o la conquista. Come insegnano tante vicende storiche, tale principio è tutt’altro che astratto: proprio come nel dilemma del prigioniero, il gioco nel quale l’Europa è intrappolata può essere sbloccato solo includendo l’altro come una opportunità, per arrivare là dove, da soli, non si riesce a giungere.
dal Corriere della Sera