QUELLO CHE UNISCE GLI EVENTI È L’IDEA CHE AD UNO STATO NAZIONALE DEBBA CORRISPONDERE UN SOLO POPOLO
Per due volte nel corso del Novecento, Sarajevo, questa grande città bosniaca un tempo elegante e multietnica, è stata al centro della storia europea. La prima volta, il 14 giugno del 1914, giusto un secolo fa, vi moriva in un attentato il principe ereditario dell’impero asburgico Francesco Ferdinando
e la moglie Sofia. Questo atto gravissimo spingeva l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe a dichiarare guerra alla Serbia, scatenando così la cosiddetta Grande Guerra, il primo conflitto mondiale (1914-1918). Ma Sarajevo è poi tornata alla ribalta una seconda volta, quando il 5 aprile del 1992 le forze serbo-bosniache iniziarono il più lungo assedio della storia bellica moderna, stringendo la città in un cerchio di fuoco destinato a durare anni, sino alla fine del 1995.
Due vicende fra loro lontane, apparentemente distinte e distanti, convergono dunque a Sarajevo, un vero e proprio crogiuolo di culture e di religioni diverse, in cui per secoli croati serbi e bosniacimaanche musulmani, cristiani (cattolici ed ortodossi) ed ebrei avevano convissuto in relativa pace. Quello che unisce i due eventi è l’emergere, lungo il corso del XX secolo, del nazionalismo identitario esclusivo, e cioè dell’idea che ad uno stato nazionale debba corrispondere un solo popolo, una sola cultura, una sola lingua, una sola fede. Noi oggi, cittadini di un’Unione Europea che raccoglie insieme coloro che si sono combattuti nel corso della prima e della
seconda guerra mondiale, ci sentiamo al sicuro e guardiamo a queste vicende come a fatti lontani, che non ci riguardano più di tanto. Ma sbagliamo: Sarajevo ha molte cose da insegnarci.
Vediamo. Il principe Francesco Ferdinando venne ucciso a Sarajevo, nel giorno di San Vito, festa nazionale serba, da un giovane militante serbo bosniaco, Gavrilo Princip. Questi era un attivista di un’organizzazione nazionalista, la
Giovane Bosnia, che aveva come obiettivo di liberare la Bosnia Erzegovina dal dominio dell’impero asburgico e di annetterla al regno di Serbia. La storia della Serbia era stata, lungo il corso dell’Ottocento, un tentativo di affermazione nazionale in una zona, i Balcani, in cui la facevano da padrone tre imperi: l’Austriaco, il Russo e l’impero Ottomano. Di questi tre colossi politici, quest’ultimo, era da tempo malato. Ma, se apparentemente, l’impero austriaco e quello russo godevano di buona salute – soprattutto se paragonati al moribondo impero ottomano – in prospettiva anch’essi erano infettati da un virus, coinvolti in quel processo di consunzione che la prima guerra mondiale porterà a compimento, con la nascita della repubblica turca, la fine dell’Austria-Ungheria e la dissoluzione dell’impero russo, poi stroncato dalla rivoluzione.
Il virus che ha ucciso l’impero ottomano è dunque il nazionalismo: Il risveglio nazionale greco è stato solo il più eclatante fra i tanti casi
di insurrezione di popoli che si venivano ribellando al dominio della cosiddetta Sublime Porta. Tra questi popoli vi era anche quello serbo, che era venuto conquistando nel corso dell’Ottocento una sempre più larga indipendenza dal Sultano di Istanbul, sancita nel 1881 con la nascita
del regno di Serbia. Questo piccolo stato si era poi alternativamente appoggiato all’Austria-Ungheria o alla Russia per cercarvi appoggi economici e protezione politico-militare. Ma col tempo si era sviluppata nell’opinione pubblica serba l’idea di riunire in un solo stato tutti gli slavi del sud (o jugoslavi) sottraendoli al dominio austriaco o turco. Non si trattava solo di
idee: la classe dirigente serba in quegli anni aveva impostato una politica espansiva che aveva condotto all’annessione del Kosovo e di buona parte della Macedonia. Questa politica panslava sarà coronata, nel 1918, dalla nascita del Regno unito degli sloveni, dei serbi e dei croati, la base della futura Jugoslavia In breve, l’attentato di Sarajevo è il frutto delle aspirazioni di un nazionalismo aggressivo fondato sull’idea dell’unità del popolo serbo.
L’assedio di Sarajevo, viceversa, segna la fine della forza di questo mito, rivelando una verità drammatica: il nazionalismo, una volta impiantato tende a riprodursi su scale regionali e provinciali, a frammentarsi in piccoli
nazionalismi sempre più aggressivi. Il culmine di questo processo si ha
quando le forze serbo-bosniache dello psichiatra-criminale di guerra Radovan Karadzic, spalleggiate dal governo serbo di Slobodan Milosevic assediarono
Sarajevo, contrastati dai musulmani-bosniaci e dai croati. Per quanto tutti i combattenti si fossero in quell’occasione macchiati di orribili crimini, i più
efferati furono condotti dalle forze irregolari che spalleggiavano l’Armata Popolare Jugoslava, l’esercito serbo. Nel caso di Sarajevo (10.000 morti tra i civili) e ancor più in quello del massacro di Srebrenica – 8372 vittime trucidate dalle forze serbe del generale (e criminale di guerra) Ratko Mladic e delle formazioni paramilitari serbe del comandante Arkan – emerse con evidenza la debolezza dell’Onu e del sistema di concertazione internazionale.
Ci vollero anni per far partire l’operazione Deliberate Force, a difesa dei civili, e l’inazione dei caschi blu di fronte al massacro di Srebrenica – avvenuto nel territorio posto sotto il controllo dell’Onu – rimane una macchia
indelebile nella coscienza della comunità internazionale.
Sarajevo, dunque, per due volte ci insegna. Il nazionalismo panslavo, il sogno della Grande Serbia che ha armato la mano omicida di Princip era espansivo e in certa misura inclusivo. La sua fine ha lasciato in eredità un grappolo di nazionalismi esclusivi e difensivi, basati sull’odio del diverso e fondati sull’allontanamento di «chi non è come te», fino alla pulizia etnica
e allo sterminio di massa. In un tempo come questo, segnato dal ritorno di retoriche nazionaliste che insistono sugli elementi identitari, facilitate
dalla debolezza della costruzione europea – un mix inquietante di impalpabile astrattezza della politica coniugata all’irresponsabile cinismo dell’economia – è forse non irrilevante riflettere sull’insegnamento di queste storie: perché non tocchi più a nessuno di dover morire per Sarajevo.
da l’Unità