Se il fantasma di Giustiniano si fosse presentato giovedì sera alla cena di Ypres la reazione più probabiòe sarebbe stata un’incontenibile risata.
Non tanto e non solo perché le ombre del passato fanno venire in mente più le comiche che le tragedie, più Ghostbuster che Shakespeare, ma perché l’ultimo imperatore bizantino potrà
far paura a qualche liceale in prova di maturità, non certo a 28 capi di Stato pronti a far volare coltelli e cosce di pollo piuttosto che accettare serenamente quanto scritto nel secondo libro delle Institutiones.
Se lo avessero fatto, non ci sarebbe voluto oltre un mese per indicare in Jean Claude Juncker il successore di José Manuel Barroso alla guida della Commissione europea. Perché se nomina sunt consequentia rerum, la verità dei fatti e delle cose dice che dopo il Trattato di Lisbona il parere degli elettori non è più una variabile indipendente e che il 25 maggio scorso il candidato lussemburghese del Ppe ha preso
più voti degli altri cinque sfidanti. Rischiando una sonora bocciatura in latino, i componenti del Consiglio europeo (ai quali spetta il compito formale di designare il presidente della Commissione) hanno invece sostenuto, o provato a sostenere, che i nomi, meglio ancora le «nomine», non sono una conseguenza delle cose, ma degli accordi. E questi, come è noto, sono materia oscura e complessa, specie quando in ballo ci sono gli interessi di 28 (ventotto) Paesi.
La verità è che alla cena di Ypres non c’è stata la semplice certificazione di un risultato democraticamente ottenuto, mala celebrazione del solito rito europeo per il quale ogni scelta, ogni decisione è il frutto di un compromesso tra le parti più forti. E a vincere ancora una volta non è stata l’idea di costruire e difendere un interesse comune, ma la logica muscolare del braccio di ferro.
Salutiamo dunque con favore che alla fine abbia prevalso il buon senso di rispettare il principio di Lisbona e il voto degli elettori, ma quattro settimane di polemiche e di trattative sono troppe per poter davvero parlare di una svolta nei costumi e nelle abitudini delle istituzioni europee. Lo vedremo nei prossimi giorni, quando il sì «concesso» a Juncker entrerà inevitabilmente, in termini di rivincita e contrappesi, nel poker tra i governi per la scelta
dei vari commissari.
In questo ritratto non proprio esaltante dell’Europa, emerge comunque un aspetto nuovo e importante che riguarda l’Italia: sulla bilancia dei poteri che contano il nostro Paese è diventato più pesante, grazie a quel 40.8% di voti che ha fatto del Pd il partito con la più alta percentuale di consensi tra tutti i Paesi europei e la vera sorpresa delle ultime elezioni, più ancora dello straordinario ma inquietante risultato di Marine Le Pen in Francia e Nigel
Farage in Inghilterra. L’arrivo tra i commensali di Ypres di «Mister Quarantapercento», come Angela Merkel chiama Renzi, non avrà cambiato la disposizione dei posti (il cerimoniale
è una faccenda seria) ma ha sicuramente modificato gli equilibri di quella cena con troppi capitavola. È in questo senso che vanno interpretati gli screzi e le tensioni (qualcuno ha parlato di litigi) tra la cancelliera tedesca e il premier italiano e che hanno messo in secondo piano gli annunciati niet di Cameron e Orban alla nomina di Juncker.
Sì, con buona pace di Giustiniano (e degli elettori), a Ypres non si è parlato di nomi che discendono dalle cose, ma di cifre, tempi e parole. Nel documento preparato dal presidente
uscente Van Rompuy si parlava ad esempio della necessità, per favorire la crescita, di «usare pienamente gli strumenti della flessibilità»: una frase che in sé non vuol dire molto (non si diceva di aggiungere nuovi strumenti, quanto di
usare fino in fondo quelli che già esistono) ma che è bastata, prima del vertice, per mandare su tutte le furie i tedeschi (il presidente della Bundesbank Jens Weidmann seguito a ruota dal ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble)
mostrando che i titoli di quasi tutta la stampa italiana sulle «aperture» della Germania alle richieste di una maggiore flessibilità non erano un fatto oggettivo, ma una nostra speranza, un wishful thinking come dicono gli
inglesi. E non poteva essere altrimenti. Le lunghe trattative sulla frase (poi modificata com’è noto in «the best use of flexibility»: il miglior uso possibile della flessibilità) dimostrano che «l’ammorbidimento» della Merkel circa il rispetto della disciplina di bilancio prevista dal patto di stabilità non c’è mai stato né mai ci sarà. E lo ha ribadito lei stessa alla cena di Ypres. La novità, questa volta, è che di fronte al solido e mai mutato rigore tedesco, non c’è stato l’abituale mugugno di sottofondo ma una voce che, con un inedito inglese con inflessioni fiorentine, chiedeva di evitare equivoci sulla parola flessibilità. Che non è una invenzione del diavolo ma (nomina sunt consequentia rerum) un termine da precisare e uno strumento da utilizzare, ovviamente nei limiti consentiti e concordati.
La richiesta italiana a Ypres è stata semplice: rispettiamo il tetto del 3% ma chiediamo di poter allentare i tempi di quel famoso fiscal compact che pende come una pericolosa mannaia sulle nostre speranze di ripresa obbligandoci ridurre il debito in eccesso a colpi di un ventesimo per volta a partire dal prossimo anno. E che in soldoni significa evitare di pagare 9 miliardi nel 2015. Una richiesta irricevibile? Forse no, anche perché gli accordi fiscali di rientro, quando vennero firmati, prevedevano un «tagliando» tecnico da eseguire nel dicembre 2014 e che adesso, come ha notato Carlo Bastasin sul Sole24Ore, potrebbe traformarsi in una «verifica politica» in cui il peso nuovo dell’Italia potrebbe risultare determinante.
Sotto questa luce, anche il nuovo calendario di Renzi, che misura le riforme non più a cadenza di settimane e mesi ma di anni, assume un significato più europeo che italiano. L’annuncio dei mille giorni, in fondo, è stato un modo per dire all’Unione che riformare il mondo del lavoro o la pubblica amministrazione richiede tempo, forza e soldi. I primi due li ha portati il 40.8% del 25 maggio, mentre il terzo fattore, i soldi, è strettamente legato alla possibilità
di dedurre i costi delle riforme dal computo del famoso 3 %.
Questi, dunque, gli argomenti che hanno scaldato la cena di Ypres più efficacemente dei fornelli in cucina, ma anche della disputa sul nome di Juncker sul quale quasi tutti, tranne gli irriducibili Cameron e Orban, si sono poi detti d’accordo. E questi gli equilibri nuovi in Europa dopo il voto del 25 maggio e prima del semestre italiano di presidenza che si aprirà mercoledì con il discorso di Renzi a Strasburgo.
Resta un punto: quello di cui non si è discusso. Perché è vero che tutti, a destra come a sinistra, parlano sempre più di crescitae occupazione e sempre meno di austerity e rigore, ma alla stretta dei conti, nessuno indica, propone, suggerisce azioni concrete per far ripartire i consumi e creare nuovi posti. Ad esempio con quelle «misure di sistema» invocate da tempo che potrebbero far crescere la zona euro nel
suo insieme e non più soltanto i singoli membri, ma soprattutto permettere di far entrare, tutti quanti, dentro aree strategiche come energia, ricerca, telecomunicazioni, mobilità sostenibile, digitalizzazione, educazione. Una
strategia condivisa per aiutare i Paesi e «unire l’Unione»: questo sì che sarebbe un modo per cambiare l’Europa. Non sarebbe il caso di organizzare un’altra cena?
da L’Unità