OGGI comincia l’Europa di Jean-Claude Juncker. E sarà, nel bene o nel male, un’Europa diversa da quella che abbiamo conosciuto. Profondamente diversa, a cominciare dalla designazione del presidente della Commissione europea avvenuta, per la prima volta nella storia, con un voto che mette in minoranza la Gran Bretagna e pone fine a quarant’anni di veti inglesi sulla
politica europea.
La nomina di Juncker non è stata decisa in conciliaboli segreti tessuti nelle anticamere del vertice, come quella di tutti i suoi predecessori. Per diventare presidente della Commissione, l’ex premier lussemburghese ha dovuto ottenere l’investitura dei leader del Ppe come candidato del partito. Il Ppe ha dovuto vincere le elezioni. Il Parlamento ha dovuto costruire una maggioranza basata sulla grande coalizione popolari-socialisti. I capi di governo hanno dovuto inchinarsi alla volontà dei cittadini e dei partiti politici.
E, GRAZIE all’impulso dell’Italia, hanno dovuto elaborare una pur vaga piattaforma programmatica per il futuro governo dell’Europa. Tutto questo non era mai successo. E, ora che è avvenuto, cambia radicalmente gli equilibri di una Unione europea in cui l’Italia ritrova quel ruolo centrale che aveva perduto dai tempi dei governi Berlusconi. Ma come sarà l’Europa di Jean Claude Juncker?
Il più bel complimento al nuovo presidente della Commissione lo ha fatto ieri, senza rendersene conto, il suo nemico giurato David Cameron: «Per tutta la sua vita Juncker è stato al centro del progetto europeo con l’obiettivo di aumentare i poteri di Bruxelles e di ridurre quelli degli stati membri », ha detto il primo ministro britannico per giustificare il suo no alla nomina di un «federalista» come presidente della Commissione europea. Ma la crociata di Cameron è stata inutile, se non addirittura controproducente. E ora questo cristiano-sociale lussemburghese, sessant’anni a dicembre, che fu allievo e pupillo di Helmut Kohl, avrà modo di mettere alla prova la sua consumata abilità di animale politico alla guida del governo dell’Europa per cercare davvero di «aumentare i poteri di Bruxelles ». Non avrà un compito facile.
Il prossimo ostacolo che Juncker dovrà superare sarà quello di trovare una maggioranza politica nel Parlamento europeo. «Sono fiero ed onorato di avere ricevuto oggi il sostegno del Consiglio europeo e contento all’idea di lavorare con i deputati europei per formare una maggioranza in Parlamento prima del voto del 16 luglio», ha twittato ieri al momento della nomina. In teoria il compito dovrebbe essere semplice, visto che la sua designazione è frutto di un accordo tra socialisti e popolari, a cui intendono aderire anche i liberali. I tre partiti gli garantiscono un’ampia maggioranza. Ma il diavolo, come sempre, è nei dettagli. Riuscirà, per esempio, a conquistare il voto dei laburisti inglesi, che hanno condiviso la crociata di Cameron contro la sua nomina? E arriverà a strappare il consenso anche dei verdi e dell’estrema sinistra, diventando così il presidente degli europeisti contrapposto agli euroscettici che certamente gli voteranno contro? Il suo futuro percorso alla guida della Commissione dipenderà anche dal tipo di maggioranza che avrà saputo raccogliere.
Di certo, le capacità e l’esperienza non gli mancano. Entrato in politica nell’84, è stato per sei anni governatore della Banca Mondiale. Poi, per diciannove anni, dal 1995 al 2013, è stato primo ministro del Lussemburgo divenendo il decano dei leader europei.
Ma già nel ‘92, come ministro delle Finanze del Principato, era seduto al tavolo dei negoziati per il Trattato di Maastricht. «Oggi ero l’unico capo di governo che non lo conoscesse personalmente», ha raccontato ieri Matteo Renzi. Per otto anni, fino al 2013, è stato anche presidente dell’eurogruppo, che riunisce i ministri delle finanze della zona euro. E in quella veste ha vissuto in prima persona tutta la difficile gestione della crisi finanziaria e del salvataggio dell’euro e degli stati minacciati di bancarotta.
Sbaglia, però, chi crede che Jean-Claude Juncker sia un profeta dell’austerity in salsa tedesca. Al contrario. Nel corso della sua lunga carriera ha spesso preso posizioni sgradite a Berlino, e anche a Parigi. Come quando si schierò apertamente a favore degli euro-bond e contro la troika. Durante gli anni della presidenza dell’eurogruppo ha spesso criticato la Germania accusata di «trattare l’Europa come una sua filiale», e le politiche di austerity praticate da un’Europa «che punisce invece di aiutare». Quando se ne è andato dalla guida dell’eurogruppo non ha mancato di denunciare «le ingerenze franco-tedesche». Per quanto riguarda l’Italia, non ha mai nascosto la sua profonda insofferenza verso Berlusconi.
Che con simili precedenti Juncker sia riuscito ad ottenere prima l’appoggio dei leader del Ppe, Merkel e Berlusconi in testa, e poi il sostegno di 26 capi di governo su 28 la dice lunga sulle sue capacità di politico. Ora dovrà metterle al servizio della sua nuova mansione. Nel corso della campagna elettorale, il suo slogan è stato tutto centrato sulla necessità di superare le divisioni e le diffidenze che oggi paralizzano l’Europa. Non è un compito facile. E il documento programmatico con cui i capi di governo hanno accompagnato la sua nomina, dalla questione della flessibilità sui conti pubblici voluta dall’Italia a quella delle due velocità nell’integrazione europea voluta dalla Gran Bretagna, sembra delimitare il terreno dei prossimi regolamenti di conti piuttosto che definire una piattaforma consensuale e condivisa.
In questo regolamento di conti la futura Commissione europea avrà un ruolo cruciale. Ma quale sarà questo ruolo dipenderà solo in parte dalla figura del presidente. Decisive saranno anche le personalità dei commissari che andranno ad occupare le poltrone strategicamente più importanti: una partita che si comincerà a giocare al prossimo vertice del 16 luglio.
da La Repubblica