C’è un’emergenza nazionale, urgente e grave, che determinerà il futuro dell’Italia: quella dei giovani. Se la classe politica e dirigente non avrà la consapevolezza di quanto sia drammatica la loro condizione e non provvederà a un drastico spostamento di risorse, pubbliche e private, per affrontare quello che è davvero il primo problema nazionale, la sorte dell’Italia è già segnata.
E’ quella di un Paese nella serie B del mondo. Dove i giovani più fortunati, quelli nati in famiglie abbienti, saranno costretti a emigrare e, per gli altri, il destino è quello della sottoccupazione, sempre più precaria e meno qualificata.
Abbiamo già tradito una volta i nostri figli e i nostri nipoti, durante gli ultimi due o tre decenni dello scorso secolo, quando abbiamo riversato sulle loro spalle il più grande debito pubblico di uno Stato occidentale, un cappio al loro collo che li sta soffocando, perché ha ridotto in maniera intollerabile l’investimento sulla loro vita. Se non riconosciamo l’enorme responsabilità di questo primo tradimento nei loro confronti, se non cercheremo urgentemente di limitare i danni di questa gravissima colpa generazionale e di salvare in qualche modo il loro futuro, li tradiremo una seconda volta e, questa volta, in modo irrimediabile.
I numeri sono noiosi, ma in certi casi sono troppo eloquenti per non citarne almeno qualcuno. Perché non si tratta di discutere opinioni, ma di voler prendere atto di una realtà di fronte alla quale non bastano lamentazioni rituali, promesse elettorali, impegni di buone intenzioni. Occorre una ribellione della coscienza pubblica, in nome della nostra responsabilità più grande, quella di padri e di madri. Ecco alcuni dati, davvero sconvolgenti.
Il tasso di occupazione dei giovani diplomati e laureati italiani, con un titolo di studio conseguito da uno a tre anni prima, è arrivato al 48,3 per cento, inferiore di ben 27 punti rispetto alla media dei 28 Paesi Ue. La spesa pubblica per l’istruzione universitaria, rispetto al Pil, è in Italia 0,83. La media della zona euro è 1,27 e, tra tutti i 28 Paesi dell’Europa, siamo al penultimo posto, perché superiamo solo la Bulgaria. In ricerca e sviluppo il confronto è umiliante: la media dei 28 Stati Ue, sempre rispetto al Pil, è di 2,07; la nostra spesa è quasi la metà, 1,27.
I giovani in Italia hanno una grave colpa: sono pochi e a nessuno interessa difenderli. La classe politica non li giudica un bacino di voti determinante, anche se il successo travolgente del movimento di Grillo tra di loro, documentato dalle analisi sui flussi elettorali, incomincia a suscitare qualche dubbio, almeno tra i politici più avvertiti. Il governo Renzi ha preferito privilegiare l’investimento nell’edilizia scolastica, per ragioni di occupazione in un settore in crisi e di visibilità mediatica, mentre sull’università l’ineffabile ministro Giannini è arrivata al punto di promettere, per basse ragioni elettorali, l’eliminazione del test d’ingresso a medicina. Un provvedimento irrealizzabile, tra l’altro, nelle condizioni dei nostri atenei, come qualunque persona che li conosca sa benissimo. È vero che l’avventata promessa non ha procurato voti al partito del ministro, ma quell’annuncio non fa ben sperare sulle sue intenzioni future.
I sindacati, poi, non hanno nessun interesse a sostenere le ragioni dei giovani, perché i loro iscritti sono pensionati e professori. Difendono quelle categorie con ostinazione conservatrice ma insuperabile e la loro potenza è tale da sfidare con successo qualsiasi intenzione innovativa e meritocratica venisse mai in mente a un ministro. Basti pensare alla sorte del povero Berlinguer, quando osò varare il famoso «concorsone». È vero che i sindacati, così, stanno mettendo a rischio il futuro delle loro organizzazioni, ma i dirigenti, come tutti i dirigenti, si occupano delle loro poltrone, non di quelle dei successori.
Anche gli imprenditori, a parole tanto preoccupati della formazione di quello che chiamano il «capitale umano», guardano solo alle esigenze contingenti e non a quelle che determineranno il futuro delle loro aziende. Cercano figure professionali che non trovano, tornitori e tecnici specializzati, ma non sono disponibili ad assumere diplomati e laureati, perché costano e, magari, pretendono di fare quello per cui hanno studiato. Senza pensare che, per sopravvivere sui mercati internazionali, il loro «capitale umano» deve raggiungere i livelli più alti di competenze scientifiche e tecnologiche.
Ecco perché senza una presa di coscienza dell’opinione pubblica nazionale che non si rassegni a vedere figli e nipoti emigranti senza ritorno o camerieri e guide turistiche per visitatori delle bellezze italiche, non ci sono speranze di interventi pubblici e privati capaci di invertire l’andamento di una condizione giovanile disperata, soprattutto al Sud del nostro Paese. Se le colpe della passata generazione non bastano a un atto doverosamente riparatorio verso la nuova, facciamo appello almeno all’egoismo, un vizio che, qualche volta, costringe persino a una costretta generosità. Qualcuno davvero può credere che i nostri pochi e precari giovani saranno in grado di pagare le pensioni ai tanti anziani, per di più e per fortuna, destinati a una lunga vecchiaia?
da La Stampa