Da qualche tempo laFrancia s’interroga sui voti e sulle bocciature. Questo dibattito di Oltralpe è utile anche a noi. Ci aiuta a guardare ai nostri punti di forza o di debolezza. E forse ci suggerisce qualche trasformazione già da tempo matura. In Italia, come ovunque, sappiamo che bisogna raggiungere presto e bene le conoscenze irrinunciabili, ben descritte nelle indicazioni nazionali dove è detto cosa si deve sapere nelle diverse discipline in seconda, in quinta, in terza media e poi nelle diverse scuole superiori. Perciò, tutti sappiamo che ci vuole qualcuno – la maestra, il prof. – che ti dica: «guarda che questa cosa la sai ma quest’altra non la sai o la sai in parte e la devi e puoi apprendere». Il voto numerico è solo un modo, anche abbastanza grossolano, per fare questo. Il principio secondo il quale un adulto educatore vaglia, insieme al suo alunno o studente, le conoscenze e competenze non viene messo in discussione quando si discute del voto numerico. Né in Francia né qui. Quel che si discute oggi in Francia è un sistema centrato su conoscenze misurate solo con prove rigide, secondo scadenze ripetute in tempi non distesi, fin dalle classi elementari, con i docenti a fare medie aritmetiche estenuanti su ogni item di sapere, fino ai decimali e poi o bocciati o promossi. Il dibattito francese guarda finalmente alla possibilità, soprattutto per i più piccoli, di tempi e modi più distesi per favorire e misurare gli apprendimenti – cosa che noi abbiamo iniziato nel 1955. La Francia, poi, si chiede se abbia senso spingere verso classi separate tutti i bambini in difficoltà (o perché appena arrivati da altri paesi o perché disabili o perché in una qualsiasi situazione di fragilità), dato che altri modelli – come quello italiano – integrano gli alunni con bisogni educativi speciali nella scuola ordinaria dal 1977, con buoni risultati per tutti – secondo l’Ocse. I nostri vicini si stanno, infine, chiedendo, se la paura della bocciatura sia davvero la leva più utile per apprendere. E questo dibattito ci riguarda, eccome. Quasi tutte le scuole psico-pedagogiche – anche grazie a estese ricerche, ripetute nel tempo e in ogni cultura – pensano il contrario. Noi bocciamo i più piccoli molto di meno dei francesi: 0,2 % alla primaria, 4,3% alle medie. Ma – attenzione! – ancora l’11,8% alle superiori. E bocciamo soprattutto durante la crisi adolescenziale (15-16 anni) e nelle aree del Paese più povere e povere d’istruzione. E la maggior parte di chi viene bocciato entra a fare parte del 17,8% di ragazzi che ritroviamo a 25 anni senza diploma né qualifica professionale; che hanno rare occasioni di recuperare, che faranno lavori con bassi contenuti di sapere o rimarranno inoccupati, con grave danno per loro, per lo sviluppo economico che è fondato sulle conoscenze, e per la coesione sociale. La scuola deve essere più accogliente ma anche più rigorosa, avere percorsi per tutti ma superare gli eccessi di standardizzazione, favorire l’apprendimento laboratoriale rispetto a quello trasmissivo, fare i conti fino in fondo con il carattere permanente della rivoluzione tecnologica con cui i ragazzi si misurano in ogni momento eppure conservare anche modi di apprendere tradizionali. Ma, detto ciò, non sarebbe meglio strutturare il sistema di conoscenze e competenze richieste per livelli, raggiungibili a scuola o anche dopo la fine della scuola senza dover per forza bocciare? Insomma, è possibile pensare – in Francia e in Italia – a una scuola che abbia un sistema di bilancio partecipativo e di rigorosa certificazione delle effettive competenze sulla base del quale Francesca o Françoise sanno a quale facoltà o programma di apprendimento successivo andare con quanto già sanno o a quale potere andare solo se recuperano quel che non sanno? Ne vogliamo parlare anche noi?
La Stampa 26.06.14