Nessuna sfida a Berlino e pochi slogan. Invece un piano per le riforme come chiede l’Unione. Un presidente del Consiglio in versione realista e pragmatica ha in sostanza inaugurato il semestre di presidenza dell’Unione davanti al Parlamento. Lo ha fatto in un giorno sfortunato, poco prima dell’eliminazione della squadra italiana in Brasile, con un discorso in cui non c’era traccia della spavalderia che di solito egli riserva ai messaggi via “Twitter” o agli interventi televisivi. Renzi stavolta ha parlato da presidente dell’Unione più che da politico italiano. Per cui nessun accenno alla revisione dei Trattati, uno dei cavalli di battaglia mediatici della vigilia. E nemmeno sollecitazioni esplicite ad attenuare il patto di stabilità. Un discorso concreto e abile, sotto questo aspetto.
Una parola di troppo e il premier avrebbe corso il rischio di indispettire qualcuno in Europa. Ovviamente in primo luogo Angela Merkel. Ieri mattina i giornali davano giustamente parecchio risalto alle cosiddette “aperture” della Cancelliera sulle politiche economiche. Sembrava quasi che si trattasse di una vittoria lampo del nostro Renzi, prima ancora di cominciare il semestre. Ma in Europa la realtà è molto più complessa e a Palazzo Chigi sono stati attenti a non commettere passi falsi. Se mai ne avessero avuto la tentazione, ci aveva pensato già il ministro tedesco Schaeuble a ricordare che non esiste una crescita economica costruita sui debiti sovrani. Insomma, il peso del debito pubblico resta il punto centrale: come è logico. E considerando la percentuale italiana rispetto al Pil, si capisce quanto sia poco verosimile, per non dire velleitaria, la pretesa di “cambiare verso” all’Europa in quattro e quattr’otto.
Infatti, come abbiamo visto, Renzi si è mosso con estrema attenzione, lasciando intravedere quale sarà il percorso del semestre italiano. I suoi richiami all’esigenza di costruire un’altra Europa non più “matrigna” hanno avuto un sapore soprattutto politico-morale, ma si sono tenuti alla larga dagli “slogan” di facile presa. Per il resto si vedrà. Quello che l’Italia potrà ottenere al tavolo europeo non dipenderà tanto dalla sua forza contrattuale, che è scarsa, quanto dall’impegno riformatore sul piano. E soprattutto dai risultati concreti di tale impegno. Questo è un aspetto che va al di là del semestre: per cui in fondo i mille giorni prospettati dal presidente del Consiglio sono un modo per legare ancora una volta il destino europeo del paese alla capacità politica di rinnovare e modernizzare. Anche qui, meno “slogan” e maggiore percezione di un compito che dovrà essere annoso per essere serio.
Quanto alla richiesta di coinvolgere l’Europa nella gestione dell’immigrazione, le parole di Renzi sono state abbastanza ferme ed efficaci. Ecco un terreno su cui il semestre potrebbe anche produrre qualche esito positivo, a meno che tutto non si risolva in un debole rafforzamento della struttura cosiddetta Frontex. Se poi, come sembra, l’Italia avrà il commissario per la politica estera, che come è noto oggi assomiglia a una scatola vuota, si potrebbe almeno immaginare uno sforzo più incisivo per riportare a casa i due marò fermi in India. Si è detto più volte che l’Italia su questo punto è stata lasciata sola, come negli sbarchi a Lampedusa. Sarebbe l’occasione per cambiare la situazione e dimostrare che la ritrovata influenza di Roma non è solo un tema per i dibattiti estivi.
Il Sole 24 Ore 25.06.14
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Se Roma allunga le scadenze, di Dino Pesole
Flessibilità senza modificare l’architettura di trattati Ue e regole di bilancio, grazie a un piano triennale di riforme. Matteo Renzi prova ad aprire un varco nel rigore, dopo le prudenti aperture di Angela Merkel. Non sarebbe poca cosa, per un Paese come il nostro, che dalla fine del prossimo anno dovrà affrontare il ben più stringente timing previsto dal «Fiscal compact». Se saremo in grado di presentarci a Bruxelles con un cronoprogramma dettagliato di riforme, con annesso l’effetto atteso in termini di incremento potenziale del Pil, la flessibilità potrebbe tradursi in maggior tempo a disposizione per rientrare dal debito.
Il tutto a fronte del rinnovato impegno a ridurre il deficit strutturale verso l’obiettivo del pareggio, e nella fondata aspettativa che le riforme vengano effettivamente realizzate e diano gli effetti sperati.
Nelle pieghe dei trattati i margini in effetti ci sono. Si possono invocare le «circostanze eccezionali», in presenza di un prolungato ciclo negativo, e l’Italia lo ha già fatto chiedendo lo slittamento di un anno del pareggio di bilancio in termini strutturali. Ora il focus è tutto sulle possibilità di agire con forza sul “denominatore”, sulla crescita. Il punto di partenza è il rispetto assoluto del vincolo del 3% per il deficit nominale, così da provare a sfruttare quei margini, già previsti sia dal Patto di stabilità che dallo stesso Fiscal compact, per i paesi fuori dalla procedura per deficit eccessivo. Aspetto che si tende a sottovalutare ma che in realtà è fondamentale, perché consente di poter rientrare nel cosidetto braccio preventivo del Patto di stabilità. Un insieme di procedure che, a ben vedere, non comportano termini temporali stringenti o precodificati, quali quelli che al contrario vengono imposti ai paesi sottoposti a procedura per disavanzo eccessivo. Non potremo con ciò rilassarci più di tanto, poiché occorrerà comunque assicurare la riduzione del deficit strutturale in direzione dell’obiettivo di medio termine, ma i benefici in termini di spazi possibili della politica di bilancio sarebbero evidenti. Soprattutto (ed eccoci alla seconda rilevante partita politica in corso) se sarà possibile riaprire la trattativa sulla clausola per investimenti, congelata dalla Commissione europea lo scorso novembre per mancanza di certezze sui risparmi della «spending review» e sugli incassi da privatizzazioni. Infine si potrà ragionare su una versione, corretta e aggiornata, dei cosidetti «accordi contrattuali». Nessun automatismo, inviso a Berlino, ma possibili aperture qualora un paese avanzi volontariamente la richiesta di potere fruire di alcuni, mirati incentivi per sostenere il costo delle riforme strutturali poste in essere. Per noi, lo sconto potrebbe concretizzarsi in prestiti della Bei concessi a tassi inferiori a quelli di mercato. Il dossier, istruito lo scorso dicembre su imput del presidente della Ue, Herman Van Rompuy, è finito in un cassetto. Se ne dovrebbe riparlare proprio in ottobre, sotto presidenza italiana, quando si proverà a riaprire anche il dossier di una sia pur embrionale versione della «golden rule», per consentire in tutto o in parte lo scorporo della spesa per investimenti dal calcolo del deficit.
Il Sole 24 ore 25.06.14