attualità, partito democratico

"Partito della Nazione: cosa vuol dire", di Alfredo Reichlin

Sull’espressione un po’ enfatica di “partito della nazione” si sta facendo confusione. Io la uso per una ragione molto semplice e molto chiara: perché è dalla crisi della nazione italiana che bisogna partire. Una crisi senza precedenti che riapre molti problemi che l’Unità ha lascito irrisolti. Il fatto nuovo è che proprio su que- sto terreno, molto più vasto rispetto ai tradizionali conflitti sociali, le forze del progresso e quelle della reazione giocano oggi una partita decisiva e la sinistra italiana rischia la sua stessa esistenza.
Altro che rinuncia al cambiamento e alla lotta contro la destra rispolverando l’inganno di un «partito unico». Significa non aver capito la natura di una lotta che ormai travalica i vecchi confini dello Stato e delle classi e non rendersi conto a che cosa si riducono i diritti e i poteri degli italiani e soprattutto dalle classi subalterne se non si ferma il processo disgregatore della trama sociale, degli assetti democratici e dello stare insieme di questo paese.
È una questione nuova rispetto a una vecchia cultura politica della sinistra. Si tratta essenzialmente del problema di come rappresentare e dare potere a una umanità che si confronta con una realtà che, insieme a nuove opportunità presenta rischi inediti e quindi bisogni e domande diverse dal passato. Le risposte sono difficili ma una cosa mi sembra chiara: non basterà affidarsi al mercato che si autoregola né alla tradizione socialdemocratica. Bisognerà andare più nel profondo dei problemi sociali e culturali. Muovere da essi in nome di una visione più alta dell’interesse generale, e quindi di una nuova idea del progresso. Dopo molto tempo e a fronte dell’avvento al potere di una nuova generazione è molto importante che tornino in campo i grandi temi.
Sono sommarie riflessioni. Le faccio non per nostalgia di «sinistrismo» oppure in nome di non so quale nuova «narrazione» ma come necessità di una risposta al modo come nel tessuto democratico occidentale ha fatto irruzione questa forma di economia a dominanza finanziaria che obbedisce non solo a logiche di profitto (questo è ovvio) ma tali da distruggere il legame sociale, a rompere quei compromessi e quei valori che sono il necessario presupposto dei regimi democratici. So che questo tema è molto ostico al pensiero «liberal» di questi anni. Tuttavia è un fatto che gli effetti sono stati catastrofici. E non solo quelli economici (la bolla speculativa) ma quelli perfino antropologici: un sistema economico basato sull’azzardo morale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro, non può che condurre alla devastazione delle risorse naturali e all’impoverimento dei ceti laboriosi. Al dilagare della corruzione. Tutto quindi spinge a pensare che la questione più concreta su cui far leva è il destino e il ruolo del lavoro. È vero che nella società moderna il lavoro non è tutto ma ciò che sembra venire meno è il grande edificio storico della modernità. Quell’Europa nella quale la storia fece un salto. Cessarono di essere centrali le figure del non lavoro (nobili, soldati, sacerdoti, avventurieri mentre il lavoro era solo il sottosuolo della società, il mondo dei servi) e diventavano protagoniste le nuove grandi forze produttive. La borghesia e il proletariato. Ed è attraverso il loro conflitto, che il mondo occidentale intraprese la costruzione di un nuovo ordine civile: i diritti e i doveri universali, la libertà e la democrazia.
Non siamo oggi di fronte a un problema di questa natura? Servono allora nuove idee. Noi da anni non inventiamo niente. Ci flagelli a mo con la crisi della sinistra ma forse non si rendiamo conto che puri n presenza di società parcellizzata si è aperta anche una nuova grande domanda: l’esigenza di un nuovo «noi». Un «noi» che guardi oltre i singoli territori, (e basterebbero le sfide ormai ineludibili dei diritti umani e della protezione dell’ambiente per rendercene conto). Un «noi» che ci chiede di pensare una forma nuova della politica come il luogo delle grandi scelte collettive. Perciò i partiti sono più di prima necessari. Ma a differenza del passato dovrebbero poggiare su una pluralità di organismi intermedi, il cui tratto comune sia il protagonismo della gente ispirato dalla consapevolezza che il mondo è a rischio e che governarlo è una impresa comune. Insomma un orizzonte di valori moderni all’interno dei quali ogni formazione politica e culturale si colloca a suo modo.
La questione sociale non è più riducibile alla contesa tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo dei produttori, cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che subisce una forma nuova di dominio e di sfruttamento. Ma se è così ci sono le condizioni per alleanze più larghe. Sia il modello socialdemocratico come il paradigma neo- liberista sono obsoleti. La politica deve rappresentare la ricchezza della vita sociale. Deve offrire soluzioni ai problemi collettivi che sfuggono alle vecchie identità. Torno così all’Italia. È perfino ovvio che il complesso di ristrutturazioni che ormai attendono il nostro Paese, sicuramente non potranno essere portate avanti in un clima di guerra di tutti contro tutti. Ed è qui che si ritrova la ragione fondante del partito democratico. Un partito che non ha nulla a che vedere con una forza personalista e autoritaria.

L’Unità 25.06.14

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