Quando i funzionari della società proprietaria dell’appartamento hanno sfondato la porta della casa di Joyce Vincent per conse- gnarle un avviso di sfratto, hanno trovato il suo cadavere acca- sciato sul divano e la televisione ancora accesa. Era il 2006 e Joyce era morta da quasi tre anni. Il corridoio era ricoperto da lettere di vario ge- nere e da richieste di pagamento di tutti i tipi. Intorno al suo scheletro, ammucchiati, i regali che aveva finito di preparare per il Natale 2003. Joyce aveva alcune sorelle, ex colleghi ed ex fidanzati, ma tutti l’avevano persa di vista. Viveva in un monolocale a nord di Londra, in un complesso residenziale sopra l’enorme centro commerciale a Wood Green. Per tre anni, nessuno dei vicini aveva notato nulla di strano. Come Joyce sia morta resta un mistero. Forse la causa è stata l’asma di cui soffriva, forse si è trattato di suicidio. Ha poca importanza. Si è lasciata morire, mettendo in scena una festa inesistente cui non era invitato nessuno, come a drammatizzare la sua immensa solitudine.
LA STORIA DI JOYCE
Quella di Joyce Vincent è una di quelle vicende che normalmente restano una questione locale, se la regista Carol Morley, non ne avesse ricostruita la storia. Il film-documentario del 2011, «Sogni di una vita», mostra una città fatta di legami rarefatti e provvisori, amicizie dimenticabili e persone sole che vanno avanti nelle loro singole unità abitative. E, alla fine del film, non si capisce se la trentottenne Joyce Vincent, estroversa e carina, sia scomparsa o se sia mai esistita realmente.
Della tragica messinscena del Natale, dove comprò i regali intorno ai quali fu ritrovata, non restano, anni dopo, che reperti destinati alla medicina legale. Perché per Joyce anche una esistenza normale aveva rappresentato un irraggiungibile sogno: «Dream of a life».
Il neuroscienziato di Chicago John Cacioppo, nel suo libro «Solitudine», scrive: «Una marea che sale può sollevare un insieme di barche, ma in una cultura d’individui socialmente isolati, atomizzati da sconvolgimenti sociali ed economici, separati da ampie disuguaglianze, può anche provocare l’annegamento di milioni di persone».
Mai, probabilmente, l’uomo si è sentito così vicino fisicamente agli altri e così distaccato, così solo e anonimo. E mai come nella nostra epoca, ha preso coscienza della propria solitudine e dell’incomunicabilità che lo separa dai suoi simili. È la solitudine dei «numeri uno» che lavorano e vivono insieme, ma non sono realmente insieme.
Collezionano amici come francobolli, preferiscono la quantità delle connessioni alla qualità delle relazioni, usano il tempo per scegliere le migliori foto da aggiungere al proprio profilo per far aumentare i «clic», proclamano la prosperità della vita sociale. Ma è una moltitudine sola e la sensazione di sentirsi «insieme ad altri» senza esserlo realmente è la forma più terribile di solitudine. Può sembrare paradossale parlare di solitudine nell’era della comunicazione globale dove tutto avviene in tempo reale.
Ma basta andare oltre il rumore di sottofondo delle folle anonime che animano il web o attraversano i centri commerciali, per rendersi che migliaia di persone accalcate l’una sull’altra non annullano la solitudine, anzi. E aver inserito apparati tecnologici nella vita di tutti i giorni, non ha fatto venir meno la necessità, intrinseca nell’uomo, di dare significato all’esistenza, di rafforzare un sistema di valori condivisi, di cercare un significato nello stare insieme ai nostri simili che sia diverso dal condividere semplicemente uno spazio.
Forse, la solitudine dell’io-globale nasce dall’aver creduto che medium potenti avrebbero risparmiato la fatica della ricerca interiore e della relazione con l’altro, dall’aver pensato che sarebbe stato sufficiente moltiplicare i «contatti» per incrementare le occasioni, i saperi, le relazioni. Ma non è stato così. E non perché la tecnologia non sia ancora abbastanza evoluta e perfezionata, ma perché la tecnologia può soltanto «funzionare». Non ha veri fini, ma semplicemente effetti.
Se per un verso si sono moltiplicati gli strumenti e le occasioni per entrare in relazione, dall’altro i contenuti si sono fatti più poveri, più sintetici. L’alfabeto delle parole, capaci di trasmettere emozioni, si è fatto corto e ripetitivo. Rispetto al passato si è in «contatto» con molti più amici ma se ne incontrano realmente molto meno, con un progressivo smarrimento delle relazioni di vita e dei luoghi d’incontro, facendo crescere la sensazione di non appartenere più a un territorio emotivamente e fisicamente definito. Globali ma soli. Un timore che si è sposato con la detemporalizzazione dell’esistenza quotidiana. Così come non ci si può più riconoscere nella sofferta geografia dei nostri padri, così non si riesce più a vivere l’esperienza del tempo come un presente che anticipa il futuro.
La vita è percepita come una serie di tante esperienze parallele, che non s’intrecciano e non si legano, che non costituiscono una narrazione. Un processo dove la coerenza non è più vissuta come un valore, perché quello che conta è vivere ogni momento di vita in modo funzionale, adeguato alle esigenze che quel momento richiede. Tutto questo mette in crisi la possibilità di sviluppare progetti di vita, perché «progettare» significa selezionare nel presente ciò che è coerente con il passato e soprattutto con le attese e gli obiettivi futuri. E tale selezione non può avvenire in una concezione del tempo ove ha senso solo ciò che offre il presente e un determinato contesto, dove cresce, per dirla con Bauman, «la solitudine del cittadino globale», la sua insicurezza di fronte alle nuove
incertezze. In questo senso, l’io-globale non è solo la congiunzione tra il vicino e il lontano, ma anche tra il «fine» dell’uomo e il «fine» del mondo nel quale egli vive.
IL VALORE DELLE PAROLE
Se la solitudine interiore dei poeti è la conseguenza di una scelta consapevole, nella quale non si smarriscono il desiderio e la nostalgia di relazioni umane, la solitudine-isolamento è, al contrario, una condizione nella quale va in frantumi ogni tipo di relazio-ne con gli altri.
Forse, quando riusciremo a ridare un’anima alle stesse relazioni, liberandoci dal turbinio di effimere distrazioni e di pseudo-rapporti, la solitudine non sarà più un veleno con il quale alienare se stessi dalla vita, ma, al contrario, lo strumento necessario per ristabilire un contatto con il nostro essere.
E per fare questo servono parole in grado di spiegare lo scorrere dell’esistenza, la solitudine e la sofferenza dell’altro, in una visione che restituisca significato alla vita stessa e allo stare insieme. Ciò che è mancato a Joyce Vincent.
L’Unità 23.06.14