Messaggio agli insegnanti: mettiamoci nei panni degli studenti e immaginiamo di sostenere le loro prove. Un esercizio per ripensare l’approccio alla Storia, favorendo l’interdisciplinarietà
È interessante leggere tutti i testi proposti all’attenzione dei ragazzi per la maturità di quest’anno, perché evocano l’immagine di una scuola possibile, critica, profonda, capace di affrontare di petto i nodi cruciali del nostro tempo. Terminata la lettura, tuttavia, un’idea luciferina mi balza alla mente: questi temi, che pongono problemi da far tremare i polsi, perché non li proponiamo a noi insegnanti a settembre invece di affidarli ai ragazzi a giugno? Non solo quelli che riguardano la nostra disciplina, naturalmente, ma tutte le tracce a tutti. Sarebbe un bell’esercizio di umiltà che aiuterebbe a metterci nei panni dei ragazzi, perché certamente ciascuno di noi avrebbe bisogno di sostegno, dovrebbe sforzarsi, mettersi in gioco, chiedere aiuto ai colleghi…
Provando a entrare nel merito ci renderemmo conto che nelle scuole reali del Paese – specie in quelle delle periferie che Renzo Piano invita a rammendare – siamo ancora molto lontani dal riuscire a fornire ai ragazzi strumenti, contesti e opportunità per costruirsi le conoscenze e competenze necessarie che diano la possibilità di affrontare le questioni cruciali che urgono. Per tentare di sciogliere tali nodi, infatti, dobbiamo bandire dai nostri pensieri e dal linguaggio ogni semplificazione e abituarci a un corpo a corpo con la complessità, che può nascere solo in una scuola attiva, con docenti fortemente motivati, capaci di mettere al centro la discussione e il confronto tra le argomentazioni.
Vediamo di che temi stiamo trattando: Theodor Adorno parla con lungimiranza della «beneficienza amministrata, che tampona programmaticamente le ferite visibili di una società» (…) in cui il dono è divenuto merce e «articolo da regalo». Marco Aime e Anna Cossetta rilevano come su internet si creano e si disfano di continuo «comunità immaginate, che non sempre necessitano di relazioni tra individui». Enzo Bianchi pone la questione di quando il dono diventa strumento «per neutralizzare l’altro e togliergli la sua piena libertà». George Mosse parla del «processo di brutalizzazione» seguito alla Prima guerra mondiale, tanto che «parve a molti che non fosse mai finita» e riguardo alla guerra senza fine che dal ’14 arriva fino al ’45, Hannah Arendt si interroga sulle radici della violenza, esaltata come forza vitale dalla versione che Sorel dà dell’élan vital di Bergson.
Luce Irigaray invita a «una coesistenza culturale feconda tra due generi irriducibilmente differenti», come esercizio necessario per sfuggire a «una cultura che vorrà sempre imporre il suo colore e i suoi valori all’altro, anche mediante la sua morale e la sua religione» e Gandhi afferma: «Per opporsi con tutta l’anima alla volontà del tiranno» è giusto proporsi il necessario «compito di convertire ogni indiano, ogni inglese e infine il mondo alla non violenza nel regolare i reciproci rapporti». Ci sono le inquietudini dell’astrofisico Martin Rees, che propone che i Robot restino solo «utili idioti al nostro servizio» e si eviti di affidar loro mestieri intellettuali complessi, aprendo uno squarcio sulle trasformazioni del rapporto uomo-macchina nei prossimi decenni, e si affronta il problema dell’equilibrio ambientale compromesso. Si chiede poi di ragionare e argomentare con cognizione sulle differenze tra l’Europa del 1914 e quella del 2014 e ci sono infine le considerazioni di Renzo Piano sulla fragilità delle periferie, individuate come la principale scommessa urbana e di convivenza dei prossimi decenni.
Un programma culturale di vasta portata che io, come buona parte degli insegnanti, credo onestamente di non essere preparato ad affrontare in modo non superficiale.
Se vogliamo prendere sul serio la sfida giustamente posta, dobbiamo abbandonare ogni illusione di cambiare la scuola dalla coda e affrontare con coraggio la questione della formazione iniziale e della formazione permanente di chi insegna, dando sostegno e finanziamenti necessari alle scuole, cominciando ad esempio a reintegrare i Fondi di Istituto stoltamente ridotti all’osso per pagare gli scatti di anzianità, perché quei soldi, se ben spesi, costituivano una prima piccola possibilità di finanziare la ricerca dentro le scuole. Se vogliamo cambiare davvero le cose, ogni scuola deve trovare tempi e modi per divenire luogo di costruzione culturale, aperto alla città e ai problemi urgenti del presente. Luogo in cui si ricerca e i ragazzi possano essere protagonisti, accogliendo le loro giuste inquietudini e proponendone noi adulti altre.
Viste le tracce uscite, dietro cui si intuiscono le intenzioni della ministra Giannini, forse sarebbe interessante domandarci quanto e fin dove sarebbe opportuno studiare la storia del Novecento, per affrontare i problemi del presente.
Negli anni Novanta il ministro Berlinguer diede l’indicazione che, alle superiori, l’intero ultimo anno fosse dedicato alla storia del secolo scorso. Fu una delle poche riforme che ebbe un’applicazione immediata ma ora, probabilmente, è necessario dedicare al Novecento ancora più tempo e impegnarci tutti a trovare materiali e metodi adatti per dare l’attenzione che merita alla seconda metà del secolo. Si accusano spesso ragazze e ragazzi di vivere schiacciati nel presente e di essere incapaci di dare respiro storico ai loro ragionamenti. I motivi di questo appiattimento sono molteplici: vanno dall’invadenza della pubblicità, che vorrebbe rinchiuderli nella sola identità di insaziabili consumatori, alla prevalenza di modi di comunicare che esaltano l’immediatezza del messaggio rispetto al tempo lungo della riflessione.
Siamo tutti convinti che, per guardare con intelligenza critica il presente, sia necessario un rapporto vivo con la storia. Che, anzi, sia proprio nella capacità di porsi domande considerando lo spessore del tempo che sta il senso più autentico del valore umanistico, da preservare nei nostri studi.
Ma allora, possiamo pensare di avere qualche strumento per interpretare cosa accade nel mondo senza informazioni e conoscenze puntuali riguardo ai complessi processi di decolonizzazione dell’Asia e dell’Africa? Senza conoscere il ruolo e la vita di personaggi come Mandela o Gandhi? Senza sapere nulla del genocidio del Ruanda o delle guerre che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia, dove i ragazzi che abitavano a Sarajevo – una città del tutto simile alle nostre – sono arrivati a spararsi tra compagni di scuola che si frequentavano fino al giorno prima?
E poi, è possibile guardare e ragionare intorno al fenomeno delle migrazioni, di cui si parla spesso con impressionante superficialità, senza fare i conti con gli sconvolgimenti provocati nell’Est dal crollo del blocco sovietico o con le drammatiche carestie che investono ciclicamente i diversi sud del mondo, accompagnate da continue guerre, provocate da oligarchie corrotte che governano tanti Paesi dell’Africa, facendo la fortuna dei produttori di armi?
C’è un libro importante, pubblicato dieci anni fa nelle Edizioni Una Città di Forlì, intitolato La storia dell’altro. È stato scritto da un gruppo di insegnanti israeliani e palestinesi che si sono incontrati regolarmente, tra mille difficoltà, per ragionare insieme sulla storia della loro terra contesa.
Al palestinese Sami Adwan e all’israeliano Dan Bar-On fu assegnato nel 2001 il Premio Alexander Langer perché l’esito di quella ricerca era esemplare. I redattori di questo libro per le scuole, infatti, erano arrivati alla conclusione che è impossibile scrivere una sola storia perché, come scrive Pierre Vidal-Naquet nell’introduzione, «i due popoli sono traumatizzati, gli israeliani dal genocidio, i palestinesi dall’espulsione. Sarebbe puerile chiedere loro di scrivere la stessa storia. È già ammirevole che accettino di coesistere in due racconti paralleli».
Ora la particolarità di questo libro di storia sta nella scelta grafica che, nell’edizione originale, divide ogni pagina in tre colonne. In una c’è la versione israeliana, in una la versione palestinese e, in mezzo, una colonna bianca che potremmo chiamare della speranza e dell’apertura a un futuro diverso. I redattori hanno infatti immaginato che le nuove generazioni possano piano piano imparare a trovare forme di convivenza che li porteranno forse un giorno ad arrivare a scrivere una storia comune.
Ho fatto questo esempio perché forse ogni libro di storia (e non solo di storia) dovrebbe avere quella colonna bianca in mezzo. È confrontandosi con testi o materiali aperti come questi, infatti, o con citazioni contraddittorie come molte di quelle proposte alla maturità, che i ragazzi a scuola potrebbero fare un salutare allenamento per affrontare la complessità del mondo.
Se il nemico giurato di ogni crescita culturale è la semplificazione, che troppe volte regna sovrana nella discussione pubblica, la scuola dovrebbe assumersi il compito di fornire materiali, strumenti e un metodo all’altezza del compito.
Sento già l’obiezione di chi dice che non c’è il tempo di fare tutto ciò, nelle poche ore che la scuola dedica alla storia. Ecco un buon motivo per ripensare con radicalità ai limiti dell’attuale divisione tra le discipline e alla necessità di favorire progetti di ricerca interdisciplinari nella scuola superiore, che diano ai ragazzi gli strumenti per accorgersi che la comprensione di se stessi e del mondo ha bisogno di un intreccio vivo tra conoscenze diverse. I giovani hanno oggi a disposizione un’enorme quantità di informazioni a cui attingere ma molti, per affrontare la fatica dell’approfondimento e sperimentare il piacere della ricerca, hanno bisogno di un contesto stimolante e trampolini da cui lanciarsi. E allora chi, se non la scuola pubblica, dovrebbe porre le basi perché il grande gioco della conoscenza non appartenga solo a chi ha più possibilità ed è più ricco di cultura, visto che 8 studenti su 10 dopo la scuola superiore non proseguiranno i loro studi?
da Il Sole 24 Ore