«Non ci sono più alibi per le banche», ha detto Matteo Renzi dopo la decisione della BCE di concedere 400 miliardi di aiuti alle banche, condizionati al fatto che siano trasformati in crediti alle piccole imprese. Renzi deve aggiungere «e non ci sono più alibi per gli industriali italiani». Mentre Bankitalia non nasconde l’intenzione di mettere a punto meccanismi in grado di assicurare che i circa 70 miliardi che le banche italiane riceveranno dalla Bce quasi a costo zero andranno ad imprese e famiglie,
tacciono la voci più autorevoli da cui dipende l’intero meccanismo, quelle degli industriali, Confindustria in testa. Perché da essi e solo da essi dipende la ripresa.
Da anni gli investimenti lordi, in assoluto e rispetto al Pil, sono ai minimi storici e lo «sciopero» non è degli stranieri ma soprattutto degli italiani, perché dovunque gli investimenti vanno nei Paesi con maggiori opportunità. Si è parlato molto degli Ide, investimenti diretti esteri che sono mancati in Italia e poco o niente delle strategie di investimento dei nostri
industriali. Si sono giustamente esaltati i viaggi all’estero dei nostri premier, Letta prima e Renzi poi, per attrarre investimenti esteri, poco si è fatto e detto per attrarre gli investimenti italiani, quelli che sono più mancati da decenni. Da anni gli industriali italiani investono all’estero molto di più di quanto gli stranieri investono in Italia: nel quinquennio
2008-2012 la media annua degli Ide-in, investimenti diretti esteri in Italia sono stati 15,6 miliardi di dollari, mentre la media annua degli Ide-out, investimenti diretti esteri degli italiani sono stati di 40 miliardi di dollari.
Non c’è da biasimare la scarsa italianità dei nostri industriali che seguono le tendenze della globalizzazione al pari dei loro colleghi americani, inglesi
e tedeschi. Secondo le regole della globalizzazione gli investimenti produttivi vanno laddove ci sono le maggiori opportunità di business, paesi giovani, ad alto tasso di crescita del Pil, possibilmente a basso rischio politico. I tre Paesi più vecchi del mondo – età media 45 anni- sono Giappone, Germania ed Italia e questi Paesi da anni hanno anche il record
negativo degli Ide-in, investimenti diretti esteri, 0% del Pil in Giappone, 0,2% in Germania, 0,4% in Italia.
I Paesi record degli Ide-in sono Cina, Brasile, India, ma anche Russia, Nigeria, Congo, Sudafrica, malgrado la presenza di fattori negativi, demografici (bassa crescita) in Russia o politici (guerre tribali in Africa subsahariana). È abbastanza naturale che anche i nostri industriali
abbiano sinora seguito le tendenze generali ed abbiano investito soprattutto nei Paesi amaggiori opportunità ma se vogliamo in Italia la svolta per
uscire dal pantano abbiamo bisogno anche del loro impegno. Non si può essere patrioti orgogliosi della nazionale di calcio, intonare ad alta voce l’inno di
Mameli e tirarsi fuori quando il Paese ha bisogno.
Fa bene Renzi a dire che non ci sono più alibi per le banche, deve però aggiungere anche un monito agli industriali, che non possono solo criticare sempre gli altri, la politica in primis, senza mettere in gioco direttamente anche se stessi. Il Paese ha obiettivi di ripresa a breve-medio termine e obiettivi strategici di periodo più lungo. Da subito deve passare dalla fine della stagnazione ad una ripresa visibile seppur lenta. Quando questa verrà si accorgerà che l’1% di crescita del Pil non è sufficiente a creare i
milioni di posti lavoro che ci mancano per essere europei -55% del tasso di occupazione rispetto al 65% europeo significa che ci mancano 4 milioni di
posti lavoro per essere europei medi- e che bisognerà copiare le strategie di redistribuzione del «poco lavoro» come ha fatto la Germania. Sul lungo periodo
la rinascita dipende dal nodo centrale, investimenti per un profondo aggiustamento della specializzazione produttiva che sia adeguata all’era della
conoscenza, con maggior peso di qualità ed intelligenza in tutti i prodotti, e soprattutto nei servizi, in Italia sempre più carenti. Solo se si marcia in queste direzioni si potrà dare un futuro ai giovani ed invertire il primo indice della crisi, la bassa natalità. Un Paese di 60 milioni di abitanti che fa la metà dei figli di quando era di 50 milioni non ha futuro, né demografico
né economico.
da L’Unità