Era prevedibile che la crisi avrebbe compromesso i consumi culturali. In base ad un adagio antichissimo, le esigenze del vivere vengono prima di quella del fare, in senso lato, filosofia. Se i redditi diminuiscono la cultura ne soffre. Questione di soldi, certo, ma anche di una mentalità che stenta a cambiare. La crisi economica sta soffocando la cultura: lo Stato taglia gli investimenti, i privati lesinano i fondi, l’offerta langue e il pubblico scema. Si va meno al cinema, si trascura il teatro, resistono — a sorpresa — solo i concerti di musica classica. Per il secondo anno consecutivo — e dopo dieci d’ininterrotta crescita — calano i consumi culturali degli italiani. L’ultimo rapporto Federculture (l’associazione delle aziende pubbliche e private che operano nel settore) mette in fila una lunga serie di numeri negativi, ma ce n’è uno, positivo, che dimostra che non tutto è ineluttabile: il pubblico è tornato alla musica classica, la fruizione ai concerti è aumentata — fra il 2012 e il 2013 — del 16,7 per cento. «Merito della gestione dell’offerta » spiega Roberto Grossi, presidente di Federculture «il mondo è cambiato, è finito il tempo in cui la cultura poteva vivere d’investimenti pubblici. A livello nazionale il consumo di musica classica è aumentato non solo perché il pubblico che l’ascolta ha maggiore disponibilità economica, e quindi risente meno della crisi. Ma anche perché molte fondazioni liriche e sinfoniche hanno ampliato l’offerta, hanno sviluppato la stagione estiva, hanno proposto pacchetti di biglietti. In altre parole hanno sconfitto la crisi con scelte gestionali: è un modello che dovrebbe essere importato in tutto il settore». Una felice eccezione perché nella maggior parte dei casi — scrive Grossi nella prefazione al rapporto — «crollano gli investimenti, la politica culturale stenta a decollare, ma permane inossidabile il peso di un apparato burocratico sempre meno efficiente e produttivo». Musica classica a parte, la crisi ha fatto cadere la domanda: nel 2013, rispetto al 2012, la vendita dei biglietti teatrali è diminuita dell’8 per cento, gli ingressi a mostre e musei del 7,5, le presenze al cinema del 5,6 per cento. In calo anche la lettura, già non brillante: nel 2013 le persone con oltre 6 anni d’età che nel corso dell’anno hanno letto almeno un libro sono diminuite del 6,5 per cento. La crisi economica pesa: l’anno scorso la spesa delle famiglie italiane per attività culturali e ricreative è stata pari a 66,6 miliardi, per una media mensile di 225 euro. Il 3 per cento in meno rispetto al 2012 che già aveva tagliato il 4,4 per cento rispetto al 2011. Pesano anche i tagli agli investimenti pubblici e privati: gli stanziamenti a favore del Ministero dei beni culturali sono diminuiti negli ultimi dieci anni del 27,4 per cento e un ulteriore calo del 3 è messo in conto per il prossimo trennio; gli investimenti che i Comuni dedicano alle attività culturali fra il 2011 e il 2012 (ultimi dati disponibili) hanno subito un taglio del 9,4 per cento, quelli delle Province del 25. Ma le cose non vanno meglio sul fronte privato: fra il 2008 e il 2013 le sponsorizzazioni sono diminuite del 41 per cento, anche se si segnala una lieve ripresa negli ultimi mesi, le fondazioni bancarie hanno stretto i cordoni della borsa (meno 9 per cento fra il 2011 e il 2012), le erogazioni da parte di persone, imprese o enti sono crollate del 26,6. Ma visto che il Paese riparte solo se riparte la cultura — sostiene il rapporto — «lamentarsi non basta». Federculture propone un rilancio in tre punti: investire sulla scuola; migliorare l’offerta grazie ad una netta svolta gestionale; favorire la spesa delle famiglie incidendo sul fisco.
La Repubblica 22.06.14