La diffusa sensazione che la corruzione abbia permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro Paese, in modi persin più gravi di tutti quelli finora conosciuti, sembra avere due cause evidenti. La prima è che essa sia una conseguenza del declino dell’ordine e delle istituzioni politiche italiane; la seconda è che costituisca un sintomo del regime economico non solo italiano, ma europeo che condiziona dagli anni 80 del secolo scorso le nostre società. In esse, infatti, i mercati rappresentano il valore di riferimento e il denaro la misura di tutte le cose.
Il sistema ideologico alla base delle politiche economiche e di un erroneo concetto di libertà ha fatto sì che se le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?
Questo sistema ha creato due conseguenze che vanno di pari passo: le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle” e la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato; ambedue con usi del lemma estremamente vasti e variegati.
In un recente lunghissimo saggio sulla London Review of Books dall’inquietante titolo “The italian Disaster” si conclude che l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, dimostrando che la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione.
Il panorama impressionante riguarda tutti i Paesi. L’affresco incomincia con l’indiscusso per 16 anni cancelliere tedesco Helmut Kohl, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio.
In Francia il Presidente per dodici anni Jacques Chirac fu, alla fine dell’immunità del suo mandato, accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Ancora in Germania, il governo di Gerhard Schröder garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il Paese. Altri casi potrebbero essere enumerati: in modo particolare quelli che hanno riguardato l’Inghilterra e il primo ministro Tony Blair, con la sua Faith Foundation, nonché gli altri, ben più noti, che coinvolgono la Spagna e la Grecia. La cronaca relativa al nostro Paese, minuziosamente riportata dalla London Review of Books e volutamente ignorata dai mezzi di informazione nostrani, non fa meravigliare delle conclusioni.
È bene allora ancora una volta ribadire che le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate, costituendo la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia. Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche nelle varie forme di governo – e vorrei sottolinearlo con forza, non parlo qui dei sistemi oligarchici antidemocratici o delle dittature, ma mi riferisco ai vari regimi democratici, pur nelle diverse e complesse sfumature che il mondo moderno presenta – diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione.
Un caso altrettanto tipico sta verificandosi negli Stati Uniti d’America, dove la Costituzione, nata per combattere la corruzione rispetto all’esperienza inglese, voleva «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le parole famose di James Madison.
La denuncia fatta valere fin dal 2011 da Lawrence Lessig, col suo libro “Republic, Lost: How Money Corrupts Congress — And a Plan to Stop It” porta un giusto inquietante accento su due aspetti che riguardano la corruzione. Il primo concerne la cosiddetta “gift economy”, che non ha alla base dello scambio corruttivo il denaro, ma favori e rapporti, relazioni e informazioni, purtroppo sovente, specialmente nel nostro Paese, non considerati corruzione, ma giusto riconoscimento dell’importanza sociale, economica, politica o istituzionale di chi li riceve. Il secondo è costituito da un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana, secondo l’opinione del grande filosofo di recente scomparso Ronald Dworkin, e seguita dallo stesso Presidente Obama. Con le decisioni della Corte Suprema Citizen United v. FEC del gennaio 2010 e la recentissima McCutcheon v. FEC del 2 aprile 2014, è stato riconosciuto il diritto costituzionale di finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse. Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro non è un problema nella politica americana, ma è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada. Emerge così un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione, quasi a confermare ulteriormente un aspetto deteriore dell’intreccio politica ed economia. Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera).
Questo particolare malessere si ripercuote in un’altra evidente incrinatura dell’istituzione dello Stato, la più importante, cioè quella che più di ogni altra dovrebbe anche combattere le disuguaglianze: la giustizia. Ed è così, che un nuovo modo di disciplina della mondializzazione economica da parte del diritto avviene appunto attraverso la privatizzazione della giustizia. Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (DOJ, SEC), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga. È così che la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne, per verificare la sussistenza di attività illegali. Siamo di fronte ad una sorta di ripetizione della classica opera del drammaturgo latino Terenzio “Héautontimorouménos”, cioè secondo un rinomato verso di Baudelaire, dichiarandosi vittima e carnefice di se stessi (“Et la victime et le bourreau”). Tutto ciò va sotto il nome di Accordi di giustizia (“Justice by Deals”). D’altra parte, anche nel sistema italiano, la procedura di patteggiamento evita il processo penale, ma non rende con questo il corrotto meno colpevole. Con le sfumature del caso, la filosofia di base è la stessa.
La corruzione pubblica e la corruzione privata, vittime dell’ideologia della deregolamentazione, hanno invece provocato una serie di leggi in aperta contraddizione col loro principio ideologico, rendendo lecite molte delle svariatissime forme di dipendenza da corruzione pubbliche e private, sicché il paradosso continua ad essere quello che già rivendicava Tacito quando scriveva «corruptissima re publica plurimae leges». La corruzione e le ineguaglianze, che in questo periodo caratterizzano la grande crisi delle democrazie, conservano molti aspetti di apparente legalità difficilmente sanzionabili. È così che non basta qualche raffazzonata norma legislativa per sopperire alla contraddittorietà delle strutture su cui la globalizzazione economica ha trascinato le moderne democrazie. La lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato ci avevano, prima della loro disgregazione, consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini.
da Il Sole 24 Ore