Le feste dell’Unità torneranno a chiamarsi con il loro nome. È una gran bella notizia. Che rende felici noi dell’Unità, e tutti coloro che hanno continuato a credere al futuro di questo giornale, le cui radici nella storia della sinistra italiana sono intrecciate con forti sentimenti popolari e con le culture democratiche. Ma la decisione di Matteo Renzi, ne siamo certi, rallegrerà anche tantissime persone che a quelle feste, in ogni parte d’Italia, hanno dedicato tempo, cuore, passione civile e la loro fatica di volontari. Non è un caso che, nonostante incertezze e divergenze, molti hanno continuato a usare il brand dell’Unità. E il numero delle feste cittadine o di quartiere con questo nome è cresciuto di anno in anno.
Qualcuno sostiene che solo Matteo Renzi, il quale per formazione non proviene dalla sinistra storica, poteva prendersi la libertà di recuperare il marchio Unità e metterlo al servizio dell’impresa di tutti i democratici. Ma poco importa se sia vero o meno. Ciò che vale di più è che Renzi abbia fatto l’annuncio in un’assemblea nazionale così cruciale, la prima dopo lo storico 40,8% delle europee. Quel marchio è prezioso. Lo sappiamo bene noi che lavoriamo a l’Unità e che ci battiamo in queste settimane perché il giornale superi le difficoltà, si riorganizzi e abbia un nuovo inizio. Ma forse ancor più importante del brand è l’idea che il futuro da costruire ha bisogno di valori, di energie positive, di radici popolari, di passione e di cultura. Il futuro va affrontato con coraggio. Chi ha paura, ha già perso. Il nuovo però resta una sfida. Non è una moda da assecondare, un potere da celebrare passivamente. E’ una competizione da affrontare con principi e valori, tenendo sempre vivo quel legame con la storia, che non è rifugio ma riserva di discernimento per l’oggi.
L’Unità non è solo un marchio che vale, e dunque non va sprecato. Certo, è anche questo. Tuttavia è decisivo affermare oggi che la storia non è nostalgia del passato, che il nuovo non è l’azzeramento delle conoscenze o la rinuncia alle scelte, che il pensiero critico resta il dna di una sinistra che si rispetti. L’Unità è un simbolo dinamico, che ha seguito il percorso della sinistra italiana nella democrazia. È vero, l’Unità ha raccontato e rappresentato in primo luogo la storia del popolo comunista, delle sue lotte, dei suoi errori, dei suoi sogni. È anche vero che l’identità del Pd è molto diversa da quella del Pci, che i democratici sono un superamento e non soltanto una fusione di vecchie storie, che proprio la cultura democratica, più ampia e capiente di quella socialista, oggi consente al Pd di essere il primo partito della sinistra in Europa. Tutte cose giuste. Ma perché, in nome di un orizzonte più ampio e di un tempo nuovo, bisognerebbe sacrificare simboli popolari come l’Unità, o come le feste dell’Unità?
Non si tratta di un’ipoteca o di un condizionamento. Al contrario, è una chance per la sinistra plurale, consapevole della straordinaria responsabilità che il voto di maggio le ha assegnato. Una sinistra plurale. Un giornale come l’Unità dotato autonomia e di spirito critico, ma mai settario. Spazi aperti di cultura e di condivisione come le feste dell’Unità. Possono stare molto bene insieme. Il Pd ha bisogno di fermezza, di carica innovativa, ma ha anche bisogno di allargare le sue braccia. La generosità è utile ad affrontare il futuro. E a mantenere gli impegni. Il rigore per contrastare la corruzione, a partire dal rigore più estremo al proprio interno. La costanza necessaria per le riforme della pubblica amministrazione e della giustizia. Il coraggio per tenere insieme più efficaci politiche per la famiglia e riconoscimento delle unioni civili. E speriamo che il Pd – come ha detto il neo presidente Matteo Orfini – trovi anche la forza per scongiurare una frattura interna sulla riforma del Senato (l’intervento di Walter Tocci ieri in assemblea non può essere liquidato con un’alzata di spalle: il confronto nel Pd può migliorare, e irrobustire, le riforme che vanno assolutamente portate a compimento).
Il nuovo comunque non si ferma. E non possiamo guardarlo come una minaccia. Sono giorni in cui ricordiamo Enrico Berlinguer. In una delle ultime interviste sostenne che l’entrata di nuove forze nella storia ha prodotto anche cadute di intere civiltà, ma guai a opporsi ad avvenimenti di tale portata «schierandosi con il vecchio o cercando di mantenere un carattere chiuso. I periodi di grandi trasformazioni possono anche comportare, temporaneamente, abbassamenti del livello culturale, della creatività della creazione artistica, ma insieme mettono in campo nuove energie, nuovi intelletti, nuove forze. Conta in modo decisivo la capacità di orientare e governare questi processi». È questa la sfida: governare il nuovo. Ed è incredibile quanto le riflessioni di Berlinguer somiglino ai passaggi salienti del famoso discorso di Aldo Moro al consiglio nazionale della Dc, dopo le prime manifestazioni del ’68: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai», disse. La Dc era il perno del sistema e ciò che si muoveva nella società aveva una forte carica anti-sistema. Eppure Moro sostenne che, nonostante i limiti e in alcuni casi la violenza, «nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia». La storia non la si affronta opponendo pregiudizi ma affrontando i rischi e cercando di portare la società «ad un livello più alto». Chi vuole cambiare davvero l’Italia deve usare tutte le energie migliori a disposizione.
da l’Unità
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“Tortellini e comizi un brand da tutelare”, di Filippo Ceccarelli
LA RIVOLUZIONE di Renzi è una novità all’indietro. Dopo alcuni anni di indeterminatezza democratica, le feste del Pd tornano a chiamarsi “dell’Unità”. Ma più che a motivazioni politiche, il revival risponde a esigenze di marketing.
QUINDI commerciali e a loro modo sentimentali. Il giovane leader in jeans e camicia bianca l’ha spiegato chiaramente: si tratta di “tutelare un brand” — e sono sempre meno, anche nella platea dell’Ergife, quelli che inorridiscono dinanzi a questo gergo da pubblicitari.
Nel maggio del 2008, d’altra parte, quando si pose il problema di depurare dalla tradizione comunista questi appuntamenti estivi ribattezzandoli all’insegna del nuovo partito, proprio l’Unità ospitò vibranti lettere di protesta, parecchie delle quali mosse dallo stesso intento di Renzi: “Non si butta al vento un marchio conosciuto di idealità, spettacoli e buona cucina”. Lo stesso Sposetti, depositario dell’anima (e dei beni) del Pci sottolineò l’inopportunità di “Cambiare nome a un prodotto di successo come la Nutella”. Né poteva immaginare, Sposetti, che pochi giorni dopo essere stato eletto alla guida del Pd, sempre attentissimo ai segni del consumo, Renzi avrebbe lodato e preso a esempio di comunicazione personalizzata lo spot della Nutella — ma tant’è.“La Grande Festa Nazionale”, come da canzone di Edoardo Bennato (a suo tempo ripresa sarcasticamente da Craxi-Ghino di Tacco), sarà pure un’entità simbolica, ma ha di sicuro rilevanti ricadute economiche. Per cui senza troppa malizia si può ricordare che giusto un anno fa un altro estimatore di Renzi, Flavio Briatore, disse: “Se la organizzassi io, alla festa dell’Unità farebbero più affari di quelli che fanno oggi”.
Può darsi. Ma il dato significativo è che parecchi continuavano a chiamarla così: “dell’Unità”, e si capisce. In “Falce e tortello. Storia politica e sociale della Festa dell’Unità” (Laterza, 2012), la studiosa Anna Tonelli ricorda come alla metà degli anni 70, il periodo d’oro, Alberto Moravia avesse mirabilmente sintetizzato l’evento rituale come la combinazione di tre grandi “idee”: il mercato, i soviet e la festa cattolica.
Dal primo raduno a Mariano Comense (ne accenna da testimone il giovanissimo don Giussani), sui prati partigiani ancora con il mitra a tracolla, fino all’ultima festa del Pd, a Genova, con Renzi non ancora leader e tuttavia accolto sul palco al suono di “We are the champion” dei Queen, la stessa colonna sonora utilizzata in quella stagione dall’”Esercito di Silvio”, le culture politiche hanno fatto a tempo a dissolversi — e un po’ anche a ingaglioffirsi.
Così oggi rischia di suonare definitivamente retorica l’esaltazione dei “volontari”. Di solito s’invocano gli addetti alle salamelle, ma a suo tempo D’Alema polemizzò con Montanelli tirando in ballo le impastatrici di tortellini. “Volontari”, comunque, che lo scorso anno hanno addirittura fatto sciopero. A pensarci bene, nel loro generico gigantismo e nella densa vacuità di spettacoli e offerte culturali, già da tempo le feste avevano dismesso l’originaria vocazione di rappresentare un microcosmo di una ideale società in qualche modo alternativa.
Tale pretesa, invero ai limiti del possibile, si è nel corso degli anni consumata e quindi estinta a beneficio di un intrattenimento sempre più facile, senza aggettivi, e di una gastronomia anche apprezzabile, sino a quando le fatidiche transenne non si sono aperte a sfilate di moda, pubblicità invasiva, vendita di cianfrusaglie, lezioni di Borsa, roulette, corsi per croupier, slot-machine, astrologia, lap-dance e spogliarelli, prima femminili poi anche maschili (vedi lo stripman “Manuel il Vichingo”, già animatore di un corso di seduzione sulla spiaggia di Milano Marittima).
Nei viali di queste città ormai prive di cuore, fra gli stand e i gazebo talvolta assegnati alle più impudiche sponsorizzazioni (Fininvest e Ciarrapico compresi) insieme alle famigliole e ai venditori di coccardine si incrociavano missionari e metallari, antimafia e europeisti, distributori di cocktail alcolici come di succhi biologici, ricordi di Nilde Jotti e session di danza afro-cubana. Un pubblico, oltretutto, convocato da poster di indefinibile, ma sintomatica e ammiccante valenza, ieri Marilyn con il vento che le alza la gonna, quest’anno il giubbotto di Fonzie e il pollice che fa ok, #happidays.
Ecco. Forse è proprio l’inesorabile secolarizzazione che oggi consente a Renzi, leader non ancora 40enne, di rilanciare con il nome di un tempo che egli non quasi ha conosciuto, le feste dell’Unità. E il dubbio, o magari il crudele scherzetto della storia, è che ingolosito dal brand l’acclamato rottamatore, nonché risoluto liquidatore del comunismo all’italiana, si prenda ciò che ne resta per riproporlo in termini di vagheggiamento affettivo, nostalgia in provetta da assaporare nelle sere d’estate senza traumi, conflitti o malinconia. Puro e profittevole vintage, a parziale riprova che il domani sta nel passato e l’estetica si è fatta politica — anche se prima o poi occorrerà trovare anche a lei un altro nome.
da La Repubblica