Non è facile inserire una qualche riflessione serena nelle polemiche suscitate
dall’approvazione da parte della Camera di una nuova norma sulla responsabilità dei giudici. Voglio comunque provarci. Certamente è inaccettabile il modo con cui la Camera è intervenuta in una materia estremamente delicata, che non solo influisce direttamente sul funzionamen- to del servizio giustizia, ma in qualche modo ha riflessi sul generale equilibrio dei poteri.
Una riforma di tale rilievo necessita indubbiamente di un approccio diverso, chiedendo di essere affidata a proposte consapevoli e meditate, sulle quali una discussione ampia e approfondita si attivi prima nelle commissioni competenti e poi nelle aule parla- mentari.
In ciò ogni forza politica è tenuta a prendere una posizione precisa, assumendosene la responsabilità nei confronti dell’elettorato di riferimento; e in ambito parlamentare chiamando i gruppi ad un dovere di coerenza, che lasci spazi limitati a casi di coscienza e ad opinioni motivate di dissenso.
Non è accettabile che una riforma di tale portata sia affidata ad una imboscata parlamentare e cioè alla presentazione in aula di un emendamento ad una legge, che tratta argomenti diversi, e che viene approvato a voto segreto tra notevoli assenze e numerose distrazioni.
Sul modo con cui si è pervenuti alla riforma le critiche sono quindi pienamente giustificate; e legittimano l’attesa che al Senato si ponga rimedio ad un errore, che attiene però principalmente alla via (tortuosa e un po’ subdola), con cui si è pervenuti alla riforma.
Su tutto questo la vibrata protesta di Anm è indubbiamente condivisibile, anche se sarebbe stato auspicabile che nella protesta non si tornasse ad evocare (per una ennesima volta!) i fantasmi di Gelli e della P2 e si evitasse la mortificante banalità di prospettare una vendetta del palazzo della politica alle nuove inchieste sulla corruzione milanese e veneziana.
Sarebbe invece opportuno che la magistratura associata iniziasse a riflettere sulle ragioni, che spingono una parte così consistente dell’opinione pubblica a ritenere necessaria una riforma della scelta normativa compiuta con la legge Vassalli del 1988.
Sono ragioni che non attengono soltanto al rilievo che quella scelta sostanzialmente sterilizzò la volontà popolare espressa negli esiti del referendum dell’anno prima; ma si appuntano soprattutto sul rilievo che il procedimento sanzionatorio del dolo e della colpa grave del giudice previsto nella norma del 1988 è così macchinoso d’aver reso in oltre un quarto di secolo la norma stessa priva di una effettiva portata sanzio- natrice.
È pur questo ad indurre tanti a domandarsi per quale ragione il magistrato, a differenza di ogni altro pubblico funzionario, non debba essere tenuto a risarcire il danno ingiusto, che abbia causato ad un cittadino per dolo o per colpa grave.
Dinanzi ad un sentimento così diffuso sarebbe auspicabile che fosse la stessa magistratura associata a farsi carico del problema, formulando proposte di riforme, una volta che la necessità di queste non sembra possa essere legittimamente e utilmente negata. È pericoloso infatti sostenere, come pure in non pochi sostengono, che nessuna riforma è possibile, perché le scelte normative del 1988 costituiscono una conseguenza ineludibile dell’indipendenza del giudice garantita dalla Costituzione, che non lascerebbe spazio a soluzioni diverse.
È una china pericolosa, perché conduce necessariamente alla conclusione che da quella indipendenza derivino, in termini di ineludibile necessità, privilegi per gli appartenenti all’ordine giudiziario, che ogni giorno di più appaiono inaccettabili, risultando anche su questo pienamente condivisibili le recenti valutazioni del Capo dello Stato.
da L’Unità