Il dilagare della corruzione è impressionante. Sta provocando guasti profondi. Se vogliano combatterla sul serio dobbiamo capire meglio di che cosa si tratta. Sembrano lontani i tempi di «mani pulite». Allora un ceto politico potente (i famosi «tesorieri») imponeva le tangenti alle grandi imprese, le quali poi si rifacevano facendo pagare un chilometro di autostrada il doppio che in Francia. Cose vergognose, la legge veniva violata ma almeno era chiara la differenza tra corrotto e corruttore, tra pubblico e privato.
Adesso le cose non stanno più così. Che cosa sono diventati questi grandi «consorzi» di imprese retti da una vera e propria «cupola» dove si distribuiscono gli appalti e alla quale partecipano generali della Guardia di Finanza, «magistrati delle acque», grandi notabili e dove qualche ricca briciola viene elargita non ai partiti in quanto tali che non contano più nulla ma a singole persone – assessori e «sbriga faccende» – per quanto essi volta a volta servono?
Non voglio anticipare sentenze che spetta- no alla magistratura. Dico solo che siamo ol- tre la corruzione politica. Siamo alla morte della politica. Cioè di quella cosa che tiene insieme una società sulla base di una idea dell’interesse generale e di regole certe, per cui i ricchi hanno tanti più privilegi dei poveri ma questi accettano di convivere perchè la legge è uguale per tutti. Arrivati a questo punto un grande partito con le ambizioni e le responsabilità di governo che ha il Pd de- ve cominciare a porsi qualche domanda. Tut- ti conoscono il degrado sociale ed economico imposti alla società multimediale da certi poteri oscuri e indefinibili (le mafie). Pochi ancora si chiedono che tipo di società si sta formando nel ricco Nord, a causa del peso crescente di ciò che si chiama il «capitalismo delle relazioni». Sembrava una anomalia questo connubio tra banche, politica e affari tipica di un capitalismo che non rischia gran- di capitali e preferisce formare «consorterie». Ma è ancora una anomalia? Dopotutto, la traccia lasciata dal berlusconismo è anco- ra così profonda e purulenta perché si è nutrita di questo connubio.
Abbiamo davvero bisogno di una svolta. Che non sarà indolore perché si tratta di affrontare quel groviglio di compromessi sociali, e anche politici e sindacali, il cui risultato è questo insieme di rendite e corporazioni, di lavoro nero e di esclusione relativa del- le donne e dei giovani delle attività produttive, di eccessivi guadagni speculativi e di arretratezza della rete dei servizi moderni, della scuola, della ricerca, della giustizia, della pubblica amministrazione. Perciò la demo- crazia italiana è così difficile. Perché il riformismo italiano deve sapere che, da un lato sono proprio questi compromessi che rendono vacue e astratte le illusioni sui miracoli del mercato e sulla necessità di evitare ogni intervento pubblico, ma dall’altro lato sono essi che rendono vani anche molti discorsi sulla giustizia sociale e sulla redistribuzione del reddito, in assenza di quelle condizioni essenziali che sono la legalità, la giustizia fiscale, la buona amministrazione, la forma- zione del capitale umano, il premio di meri- to. È da tutto ciò che deriva la necessità di porre su nuove basi la costruzione dello Stato. Il che significa che abbiamo bisogno di un partito certamente articolato ma che sia un partito vero. Con una testa che esprima una volontà e una strategia e che sia insedia- to nella società e capace di dare ad essa una nuova «forma».
Ha ragione Renzi quanto ci ricorda che alla fin fine la prima cosa da fare di fronte alla corruzione è arrestare i ladri. Ma perché i ladri sono tanti? Perché gli italiani sono quelli che sono? Non mi convince più questa risposta. Forse la riflessione si dovrebbe spo- stare su un terreno più ampio nel quadro di una analisi meno economicistica della mondializzazione. È il problema che ha posto Alberto Melloni, lo storico del cristianesimo, quando rivolgendosi alle gerarchie cattoliche, le invitava a rendersi conto che «lo stile di vita tenuto dall’Occidente, nel quale il de- bito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo».
Che cosa è diventata la corruzione nel mondo attuale? Sono state scritte pagine illu- minanti da Paolo Prodi. La trasformazione della finanza da infrastruttura dell’econo- mia in una industria bancaria che fa denaro col denaro in quanto emette una alluvione di «titoli» senza copertura nell’economia reale sta provocando guasti profondi. Di fatto, il mondo è stato inondato di debiti e quindi di rendite che la società reale della produzione e della creatività umana non può pagare. Già oggi gli attivi finanziari a livello mondia- le superano di molto gli attivi dell’economia reale, e in più le attività finanziarie pretendo- no rendimenti mediamente molto superiori a quelli della produzione di merci. L’Italia sta tutta in questo dramma. Quella che dopo- tutto è una grande economia è caduta – a causa del suo alto debito pubblico – nelle mani della speculazione. Per sostenere il costo crescente del sostegno del debito è costretta a bruciare i mobili di famiglia. E ciò in quanto sacrifici, tagli, austerità non servono a nulla se non riparte lo sviluppo reale. Ma questo non può ripartire se non si spezza il circolo vizioso per cui il costo degli interessi sul debito è superiore alla crescita del Pil. Conclusione. Leggete i giornali. Crescono i guadagni di borsa e aumenta la miseria della povera gente. Gli scandali dilagano. Ma il più grave degli scandali sta in questo nodo che ci strozza.
da l’Unità