Sembra la trama di un film di fantascienza. Un supereroe dato per morto nel 2008 ritorna in vita sei anni dopo grazie alle cure miracolose di uno scienziato burbero e barbuto. Ma troppo tempo è passato e il supereroe fatica a trovare un ruolo in un mondo che non riconosce più. Riuscirà il nostro eroe a ritrovare la forza del passato o sarà condannato a rimanere anonimo per il resto dei suoi giorni?
Purtroppo Hollywood un film di science fiction sull’economia non lo farà mai, ma il dilemma della crescita americana è di proporzioni sovrumane. I numeri sulla disoccupazione farebbero pensare a un momento d’oro per gli Usa, il ritorno trionfale del supereroe dell’economia mondiale e lo stimolo mastodontico amministrato dal burbero ex capo della Federal Reserve Ben Bernanke.
Le cifre di venerdì hanno persino dato ai secchioni delle statistiche un numero da gustare, commentare e twittare: dopo la crescita di maggio, il numero di americani impiegati è a un nuovo record. Ha infatti sorpassato il precedente primato del gennaio 2008, prima del fallimento di Lehman Brothers, della Grande Recessione e della distruzione di milioni di posti di lavoro.
Allora tutto a posto? L’America di nuovo in sella dopo la caduta del 2008? Come non dicono a Hollywood: not so fast, non andare troppo veloce. Dietro ai numeri, ai titoloni e all’ottimismo degli investitori si nasconde una realtà tortuosa, complicata e sgradevole.
La crisi e la recessione che la seguì non hanno solo rallentato l’economia americana, l’hanno cambiata in maniera profonda e forse permanente. I patiti dei fumetti lo sanno benissimo: quasi tutti i supereroi diventano tali dopo un mutamento genetico o qualche altra indelebile trasformazione.
Nel nostro caso, il cambiamento è sia quantitativo sia qualitativo. Se guardiamo ai numeri, il record di ieri non è granché. E’ vero che circa 138 milioni di americani e americane ora hanno un lavoro – più di qualsiasi altro periodo nella storia degli Usa. Ma è anche vero che la crescita nei posti di lavoro non ha tenuto il passo con l’aumento nella popolazione. L’economia americana dovrebbe impiegare altri 7 milioni di persone per chiudere quel gap, secondo l’Economy Policy Institute, un centro di ricerca di Washington.
Il «record» è effimero quanto inutile a prendere la temperatura del mercato del lavoro statunitense. Un dato molto più importante è la percentuale di americani che ha un lavoro o dichiara di essere in cerca di lavoro, la cosiddetta «participation rate». Quel numero è al livello più basso negli ultimi 30 anni. Un record anche quello, ma negativo.
Paul Ashworth di Capital Economics lo attribuisce all’effetto-crisi che ha convinto molti americani a smettere di cercare lavoro e di accontentarsi di contratti part-time e impieghi occasionali. Il corollario è che la recessione ha spinto milioni di persone ai margini dell’economia e della società. Le conseguenze e i costi di quest’opera di rottamazione umana, che mai si era vista nel dopoguerra, potrebbero essere enormi.
Ma non è solo la quantità di lavoro che è diminuita negli anni bui del dopo-crisi. Anche la qualità ne ha sofferto. Il numero di americani che lavora nelle industrie manifatturiere, edilizie e governative – i tre settori che hanno tradizionalmente pagato i migliori salari – è calata dal 2008 e la crescita nell’occupazione è stata guidata dai servizi – dagli hotel, ai ristoranti, agli ospedali – che pagano molto meno.
E’ un cambio radicale: da un’economia industriale (e governativa) a un’economia dei servizi che cresce ma non retribuisce come nel passato chi vi partecipa – un altro motivo per cui molti americani non vogliono più far parte della forza lavoro.
Non è un caso che i salari medi, a maggio, siano saliti solo del 2,1%, praticamente in linea con il tasso d’inflazione.
La buona notizia, in tutto ciò, è che l’economia Usa continua a crescere senza creare pressioni inflazionistiche grazie, in gran parte, agli esigui aumenti nei salari. Il consenso degli economisti di Wall Street ieri era che la Federal Reserve continuerà a mantenere i tassi d’interesse bassi proprio perché il mercato del lavoro non è ancora in buona salute.
L’altro aspetto positivo è che le aziende sono in una posizione ideale: hanno soldi risparmiati durante gli anni di crescita-zero e la possibilità di assumere senza il pericolo di aumentare i salari. Nel tira e molla storico tra capitale e forza-lavoro, gli ultimi sei anni negli Usa hanno favorito il capitale – un risultato che dovrebbe alimentare la crescita economica nei prossimi anni.
Il problema, però, è a lungo termine. Ormai conosciamo l’America che è uscita dalla recessione, ma che America uscirà da questo periodo di crescita lenta e diversa dal solito?
Ogni supereroe ha la sua nemesi. Per il benessere dell’economia mondiale, bisogna sperare che la crisi del 2008 non si riveli la kriptonite degli Usa.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal
La Stampa 07.06.14