Il bilancio è da dopoguerra: 120mila aziende chiuse e un milione di posti di lavoro persi. Per il momento l’Italia figura ancora tra i Paesi che compongono il G8. Ma, dopo essere scivolata all’ultimo posto della classifica, infine superata dall’India e anche dal Brasile, si trova in una posizione molto meno confortevole di qualche anno fa. Certo era un altro mondo quello del 1975, quando fece il suo ingresso tra i grandi in qualità di sesta economia della Terra, ed in continua espansione. Ma sembra passata un’era anche dal non lontano 2008, prima che scoppiasse la crisi globale, quando ancora vantava il quinto piazzamento in classifica e poteva guardare dall’alto in basso anche la Corea del Sud.
Ora non è più così. Il rapporto sugli scenari industriali appena diffuso dal Centro studi di Confindustria ha confermato il sorpasso degli indiani e dei carioca, e non solo a causa della «fisiologica avanzata degli emergenti», ma anche di un arretramento produttivo «accentuato da demeriti domestici». Non stupiscono i tentativi di rassicurazione del medesimo rapporto, secondo cui l’ottavo posto «in sè rimane un ottimo piazzamento», soprattutto se si considera che il nostro Paese è solo 23esimo per grandezza demografica. Manon si possono nemmeno dimenticare le previsioni meno ottimistiche circolate nei mesi scorsi, che rischiavano di vedere l’Italia già oggi fuori dal club del G8 o addirittura fuori dai primi dieci produttori mondiali entro il 2018 (a favore di Canada e Spagna).
LA PERDITA DIPRODUZIONE
Il dato davvero allarmante, a prescindere dalle offese all’orgoglio nazionale (sui gradini più alti del podio, del resto, anche nel 2013 si è confermata la terna Cina, Stati Uniti, Giappone, con la Germania sempre quarta, seguita da Corea del Sud e India), resta però il costo in termini manifatturieri ed occupazionali in cui si è tradotto questo progressivo arretramento. Mentre i volumi mondiali di produzione industriale sono cresciuti del 36% tra il 2000 e il 2013, l’Italia si trova «in netta controtendenza» con una diminuzione del 25,5%. «Fa peggio proprio dove gli altri vanno meglio» si legge nello studio di viale dell’Astronomia. Una situazione che ha portato il presidente Giorgio Squinzi a parlare di «dati tragici», ma senza nessuna concessione al vittimismo, facile tentazione del Belpaese. «Non siamo vittime di un destino crudele e ineluttabile, siamo noi che possiamo e dobbiamo costruire il nostro futuro» ha puntualizzato il leader degli industriali, avvertendo però che serve «un salto di mentalità, una svolta chiara e decisa, e mi pare che si stiano creando le condizioni per tale svolta». Tenendo sempre a mente la direzione da intraprendere, con il lavoro come «priorità assoluta», Squinzi si è detto «sicuro che ce la possiamo fare». O meglio, «ce la dobbiamo fare».
Le conseguenze, in caso contrario, potrebbero farsi più pesanti di quanto siano già oggi che la «massiccia erosione della base produttiva» ha portato alla chiusura di oltre 100mila fabbriche con la distruzione di quasi un milione di posti di lavoro tra il 2001 e il 2011, a cui vanno aggiunte le perdite del biennio successivo, ovvero «altri 160mila occupati e 20mila imprese» che sono sparite dal nostro tessuto produttivo. Complessivamente, dunque, «nel 2007-2013 la produzione è scesa del5%medio annuo, una contrazione che non ha riscontro negli altri più grandi Paesi manifatturieri». Le cause del tracollo sono fin troppo note, «il calo della domanda interna, l’asfissia del credito, l’aumento del costo del lavoro slegato dalla produttività, e la redditività che ha toccato nuovi minimi», a cui vanno aggiunti anche «i condizionamenti europei». Vale a dire, «le politiche fiscali restrittive » e «il paradosso di un euro che si apprezza, specialmente nei confronti delle valute di molte economie emergenti, e frena così il driver delle esportazioni ».
Così, mentre la produzione manifatturiera mondiale «ha ripreso a crescere », rilevano gli economisti di Confindustria, «arranca l’Europa» e soprattutto arranca l’Italia, «tra tutte le grandi economie industriali quella più in difficoltà». Ragioni d’ottimismo restano, però, «una forte capacità di competere» e i «segnali di cambiamento delle strategie delle imprese » per reagire al credit crunch senza ridurre gli investimenti.
L’Unità 05.06.14