Pochi lo sanno, ma tra le immagini storiche della Liberazione di Roma del 4 giugno 1944, ve ne sono moltissime legate a un celebre film del dopoguerra: Vacanze Romane, di Wilder. Quello con Audrey Hepburn e Gregory Peck sulla Vespa in giro per la città. Wilder girò, per conto dell’esercito americano metri e metri di pellicola, in parte usate per i cinegiornali Usa, e in parte come taccuino per un film su Roma. Perché il dettaglio? Ci è capitato di vederle di recente, e sono a colori. Irreali rispetto a quelle festose e mitologiche, ma pur sempre drammatiche in bianco e nero, che abbiamo immagazzinato in memoria con le note di Glenn Miller. Lo strano di quelle sequenze estive e colorate è che sono normali e quotidiane. Tranquille. Senza enfasi. Certo gioiose, ma per così dire «turistiche».
Era quello che la propaganda Usa voleva fare vedere in Usa, dopo le ingenti perdite di Anzio, Nettuno, Salerno e soprattutto Cassino. Vedete, sembrava dire il raffinato regista: tutto bello e «easy», come in gita e la gente ci ama. Senza deliri o tragedie alle spalle. E infatti la gente appare ben vestita e posa volentieri in carrozzella o attorno ai carrarmati, a Piazza Venezia, Via del Babuino, Via del Corso, Piazza di Spagna, con l’immancabile «glamour» di Trinità dei Monti?
Vere o false quelle immagini della Liberazione e di quel giorno, nonché dei giorni successivi? Risposta: tutte e due le cose. Sì, perché il dramma di Roma città aperta, prima di quel 4 giugno ha due facce. C’è una città rastrellata e impoverita. Razziata, torturata nascosta e combattente. E una città più normale e indifferente. Più «zona grigia» per dirla con una famosa ed equivoca espressione dello storico Renzo De Felice (equivoca perché «grigio» non significava stare a metà tra le parti, ma tifare in silenzio per la Liberazione). Infatti si andava a cinema e a ballare, al Pincio e ai caffè. E la sera prima dell’arrivo degli americani al Teatro dell’Opera – dalla parte del Tevere in mano ai tedeschi – si alzava il sipario sul Ballo in Maschera. Con Beniamino Gigli a cantare Addio diletta America, per ironia della sorte poche ore prime dell’ingresso americano. Insomma c’era una Roma che si faceva i fatti suoi, sperando di passare indenne tra gli eventi. E una Roma corrusca e più simile al linguaggio filmico a venire di Rossellini e Lizzani: Roma città aperta e Il Gobbo del Quarticciolo. In questa seconda e più vera Roma ci sono tante cose prima dello sbarco su gomma trionfale.
Le bande armate ai Castelli, sulla Tuscolana e la Casilina. I gap, i sabotaggi e gli attentati come quello clamoroso all’Adriano. E quello ancor più famoso e tragico di Via Rasella. Che in realtà, tecnicamente non fu un mero attentato fatto al riparo. Bensì un’azione militare vera e propria: bomba e poi sedici partigiani a sparare sul nemico, con armi leggere e lancio di ordigni da mortaio Brixia, con miccia e senza percussore. Ci voleva fegato, altro che sicari nascosti che non si consegnarono al bando per liberare i 335 ostaggi (menzogna ancora oggi ripetuta a destra dintorni: la sentenza fu eseguita prima di venire annunciata). E ci voleva un’organizazzione radicata e preparata per agire in quel modo. Oltretutto non contro pacifici boscaioli altoatesini, ma contro aggueriti e feroci «SS Bozen». Appartenenti a un reggimento che si sarebbe macchiato di stragi in Istria e nel Bellunese, ed addestrati a fucilare e rastrellare. Poi c’erano i trotzskisti di Bandiera Rossa, forti a San Lorenzo e in frange del proletariato romano, temuti dal Pci e dal Cln. Che però ebbero sempre in mano il controllo politico e militare delle operazioni che vi furono. Del resto erano proprio gli angloamericani, bloccati sul fronte di Nettuno, a chiedere azioni militari in città. Benché poi la parte monarchica del Cln – pensiamo all’eroico Cordero di Montezemolo – fosse chiamata al contempo a temporeggiare coi tedeschi a Roma, agendo come supporto logistico alla Resistenza al nord. Pr favorirne l’evacuazione senza spargimento di sangue. Come attesta l’incontro in Vaticano del 10 maggio di Karl Wolff, comandante SS con Pio XII, affinché non ci fosse la difesa ad oltranza di Roma da parte tedesca. E quell’incontro era un ponte diplomatico tra tedeschi e Allen Dulles,nresponsabile del governo Usa in Europa. Un ponte gettato, forse all’insaputa di Hitler, da Himmler.
In questa tenaglia, dopo il fallimento della difesa di Roma a Porta San Paolo, la Resistenza romana fa quel che può. Aggredendo i tedeschi, anche con azioni spettacolari, e salvando e nascondendo ebrei e perseguitati. C’è la liberazione rocambolesca a Regina Coeli di Saragat con Pertini e Vassalli, la liberazione di ebrei dai vagoni piombati al Tiburtino, gli scontri armati in periferia e al centro. E poi le catture e le torture a Via Tasso e alla Pensione Jaccarino, o a Palazzo Barschi. Con le bande di torturatori fascisti: Pollastrini, Bardi, Franquinet, Koch. E l’uccisione prima di Eugenio Colorni e poi di Bruno Buozzi a Forte Bravetta. Preceduta dal sacrificio, tra i 335 delle Ardeatine, di Pilo Albertelli. Quindi popolo e intellettuali, militanti e fiancheggiatori: persino doppiogiochisti del Cln infiltrati tra finanzieri, impiegati e carabinieri. Altrimenti come avrebbero potuto nascondersi e sopravviverre le centinaia di migliaia di «clandestini» e sfollati, ospitati in conventi, soffitte e cantine? Erano più di 500 mila dopo il 1943, con documenti e identità false. Tornarono a veder le stelle anzi il sole il 4 giugno. Dopo avere sentito dalla radio alleata una strana parola. Non era «pronto america me senti» di Sordi, ma «Elefante». Come quelli di Annibale, ma non più cavalcati da nemici di Roma.
L’Unità 04.06.15