Stanti le attuali regole europee, è andata bene. Meno severa di così la Commissione di Bruxelles non poteva essere, dato che i conti pubblici dell’Italia non rispettano tutti i parametri stabiliti. Può essere l’indizio che entriamo in una fase nuova. Sabato anche il governo spagnolo ha deciso un calo di tasse. Così com’è la ricetta dell’austerità nell’area euro non è più sostenibile.
Però occorrerà saggezza politica per cambiarla senza aprire una rissa.
In Paesi carichi di debiti riaggiustare i bilanci è indispensabile, ma il ritmo con cui il «Fiscal Compact» europeo lo impone si rivela inadatto a una crisi di portata storica, lunga, con le caratteristiche che sta prendendo.
Lo si vede nelle cose. In tutti i Paesi avanzati, anche quelli più sani, la ripresa è più fragile di quanto sperato. Non siamo in un ciclo economico normale. Le ferite del 2007-2009 sono lontane dall’essere completamente guarite.
Se avessimo un forte recupero e una prospettiva di rialzo dei tassi di interesse, avrebbe senso ridurre il debito prima che si può. Non è così. Ovunque le imprese investono poco, i tassi sono ridiscesi; i capitali tornano a cercare guadagno in impieghi finanziari rischiosi.
Non si può attendere sollievo solo dalle misure che la Bce deciderà giovedì. Arrivano un po’ tardi, e la rinnovata debolezza del dollaro le rende meno efficaci; mentre l’attuale relativa stabilità finanziaria potrebbe non durare.
Il «Fiscal Compact» – che, non dimentichiamolo, l’Italia ha recepito nella Costituzione – è frutto della sfiducia reciproca tra i Paesi nel momento della crisi dell’euro. Nel rifiuto di costruire decisioni collettive, si preferì legare le mani a tutti.
Abbandonare queste regole stringenti sarebbe pericoloso, per vari motivi. Il più serio è la situazione delicatissima della Francia, dove il rigetto politico si gonfia quando di risanamento del bilancio se ne è fatto ancora assai poco.
Bisogna aggiustare il meccanismo senza romperlo. Tollerare per l’Italia uno scostamento dall’obiettivo strutturale 2014 può essere un inizio. E quanto alla norma sul debito, studiata proprio per noi, facendo i conti l’anno prossimo si dovrà concludere che con una inflazione sotto l’1% è temporaneamente inapplicabile.
I giornali tedeschi già scrivono che l’Italia vuole rompere i patti. Interpretano le formule caute usate ora da Matteo Renzi alla luce di certe spacconate precedenti all’entrata in carica. Il potenziale di diffidenza resta alto in Germania proprio mentre altrove il rafforzamento del nostro governo fa sperare.
Un segnale importante l’ha dato, per parte sua, la Banca d’Italia. Venerdì scorso sulla finanza pubblica il governatore della Banca d’Italia è stato indulgente come non mai. Non si tratta di una improvvisa sottomissione alla politica. C’è dietro un ragionamento condiviso dal Fmi e dall’Ocse: nelle condizioni attuali dell’economia mondiale occorre allentare il rigore e accelerare le riforme.
In Europa non sarà facile arrivare ad intese. Tuttavia la protesta rivelata dal voto del 25 maggio non concerne la moneta unica, poiché emerge perfino più energica in Paesi che ne sono fuori. Né è legata soltanto all’austerità. Segnala piuttosto paura del futuro, disagio verso una prospettiva di ristagno, di lavoro scarso, di benessere che si riduce.
Il ritorno all’equilibrio di bilancio è utile, specie in un Paese come il nostro dove lo Stato ridistribuisce troppe risorse e non a vantaggio dei più deboli. Però non è la priorità assoluta quando nessuno dei vecchi equilibri regge più.
La Stampa 03.06.14