“Una lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra di essere tornate alle code per l’acqua, per i generi razionati”. Così la giornalista Anna Garofalo descrive l’emozione del 2 giugno 1946, la prima volta delle donne al voto nazionale. “Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomini e donne hanno un tono diverso, da pari”.
La bellezza del 2 giugno è in quella famosa foto in cui un volto di giovane donna sbuca dalla prima pagina del Corriere della Sera che titola “È nata la Repubblica italiana”. È donna, come lo fu quella francese nelle vesti della Marianne. Ma qui non si tratta solo di allegorie tradizionali, perché il suffragio universale è stato appena conquistato, dopo una battaglia durata oltre mezzo secolo.
In quel referendum del 2 giugno, per scegliere tra repubblica e monarchia, si recò alle urne l’89,1% delle aventi diritto, una percentuale quasi identica a quella degli uomini. Eppure quell’ingresso delle donne nella cittadinanza nasceva gravato da un “difetto originario”, come scrivono Assunta Sarlo e Francesca Zajczyk in Dove batte il cuore delle donne? (Laterza). Togliatti e De Gasperi, con il decreto del febbraio 1945 che riconosceva il diritto di voto alle donne, “dimenticavano” di parlare della loro eleggibilità. Donne elettrici, quindi, ma non donne elette. Una svista originaria, corretta solo un anno più tardi, che denuncia la difficoltà del loro ingresso in una sfera pubblica che è stata disegnata sulla loro esclusione.
Quel che avvenne dopo è in parte il riflesso di quell’imperfezione, incompiutezza della cittadinanza degli inizi, che si è perpetuata in una storia che arriva fino ai nostri giorni. Il 2 giugno vennero elette 21 donne alla Costituente, su 556 deputati (pari al 3,7%): 9 per la Dc, 9 per il Pci, 2 per il Psiup, 1 per l’Uomo qualunque. Nella commissione dei 75 che doveva redigere la Carta Costituzionale soltanto 4 membri erano donne: Maria Federici, Lina Merlin, Teresa Noce e Nilde Iotti. Donne di grande valore, che hanno segnato pesantemente la storia del nuovo stato. Teresa Noce si impegnerà negli anni ’50 per la legge di tutela delle madri lavoratrici, Lina Merlin otterrà l’abolizione delle case chiuse. Nilde Iotti sarà la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Camera dei deputati, e lo farà per ben tre legislature.
Nel 1948, però, il testo costituzionale uscito dalla commissione porta le tracce dello squilibrio tra i sessi. Si pensi al passaggio dell’articolo 37 in cui si stabilisce che la donna lavoratrice ha, sì, pari diritti, ma “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”. Del resto, nel ’46, la strada dei diritti è ancora tutta da percorrere. Bisognerà aspettare gli anni ’70 perché arrivi il tempo delle conquiste civili: il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, la parità di trattamento sul lavoro.
Ma intanto il rapporto controverso tra donne e politica non trova una via semplice per risolversi in positivo. Lo specchio più evidente di questa difficoltà è la perdurante sottorappresentanza delle donne nelle istituzioni: nelle elezioni del ’48, le donne elette alla Camera sono il 7,7% ma nei primi venticinque anni della Repubblica questa percentuale scende addirittura vicino allo zero, e resta bassissima in Senato, stentando a sollevarsi oltre il 3%. Nei decenni successivi l’andamento è altalenante, fino a raggiungere il 21,1% di donne alla Camera e il 18,4% al Senato nel 2008. Poi un balzo in avanti nel 2013, in cui il dato ha un incremento record di dieci punti percentuali.
Nelle elezioni europee di pochi giorni fa abbiamo visto un consolidamento di questo risultato. Al Parlamento di Strasburgo, la percentuale di donne tra gli eurodeputati italiani è scesa dal 14% della prima elezione nel 1979 all’11% nella successiva, per poi risalire lentamente fino al 21% del 2004 e al 23% nella legislatura uscente del 2009. Nel 2014 la presenza femminile nella delegazione italiana ha raggiunto il 40%.
Nelle Europee del 25 maggio, è stato detto, si è rotto anche un altro tabù, quello per cui le donne non votano le donne, perché il successo delle candidate alle elezioni è stato anche il risultato del voto femminile. Quel che è certo è che un numero di elettori nettamente superiore al passato ha dato la sua preferenza a una donna. E questo è, almeno in parte, un effetto del consolidarsi di un legame positivo tra elettorato femminile e rappresentanti dello stesso genere.
“Quando i presentimenti neri mi opprimono”, diceva la scrittrice Anna Banti a proposito del referendum del 2 giugno, “penso a quel giorno, e spero”. La cittadinanza delle donne non è compiuta, la loro esclusione passa ancora attraverso la sottoccupazione e sottoretribuzione, gli attacchi alla libertà di essere madri senza rischiare il posto di lavoro e all’autodeterminazione in fatto di riproduzione. Ma almeno qualche traguardo lungo il percorso cominciato nel 1946 si può dire lentamente raggiunto.
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