Le appena svolte elezioni europee hanno rivelato una singolare dissociazione tra le élite politico-intellettuali e gli elettori. Il deficit di democrazia che sta dilagando in tutti i Paesi occidentali, Stati Uniti compresi, rappresentato dalla sottomissione del potere legislativo rispetto a quello esecutivo, sembra con queste elezioni aver subìto un’inversione di tendenza. Gli elettori europei, il maggior numero mondiale dopo quelli indiani, si sono dimostrati più di ogni volta precedente consapevoli dell’importante funzione del tanto disprezzato Parlamento europeo, nel quale per la prima volta hanno potuto indicare il candidato presidente della Commissione, che rappresenta il potere esecutivo. L’Europa tecnocratica, nominata e gestita dall’alto, ha aperto la porta a un’Europa politica orientata dal basso, verso una democrazia rappresentativa nel senso classico.
Le campagne elettorali, frammiste al richiamo continuo di problemi interni, hanno alzato i toni e i livelli delle discussioni sui problemi europei. È dunque un bene per la democrazia che nel Parlamento, insieme a centrodestra e centrosinistra, siedano anche, come stimolo, gli euroscettici e i populisti. E così la valutazione delle pur rilevanti astensioni dal voto non sembrano inquadrabili negli schemi di coloro che intendono uscire dall’Europa, poiché la loro astensione va considerata più come un’opposizione a questa Europa, per come è stata finora gestita, piuttosto che un desiderio di fuga dall’Unione.
Ebbene, il nuovo presidente della Commissione dovrà essere scelto tra i candidati indicati dai vari raggruppamenti, e così tra i primi due Jean-Claude Juncker, per il partito popolare europeo, e Martin Schulz per il gruppo socialista e democratico. Altre liste hanno poi preso addirittura il nome dal candidato Presidente, come ad esempio la lista Tsipras della sinistra radicale. Insomma, il Consiglio europeo deve considerare vincolante il risultato del voto democratico espresso dagli elettori. È certamente questo un enorme passo in avanti nella democrazia rappresentativa in Europa ed è su questa base che dalla nuova Europa, maggiormente legittimata dal punto di vista democratico, può nascere una diversa politica, che affronti i problemi irrisolti della globalizzazione. Costituisce questo un passo fondamentale e la miglior prova della validità del “metodo Monnet”, sulla unificazione europea, dacché Jean Monnet, uno dei padri fondatori, aveva previsto un processo graduale verso l’unificazione politica, le cui opportunità sarebbero derivate da grandi crisi.
Qualche resistenza a questa apertura democratica proveniente dalle elezioni sembra venire, come ho sopra accennato, dalle élites politiche e intellettuali. Lo dimostrano, ad esempio, le iniziali incertezze nei capi di governo sulla scelta del presidente risultato capolista nelle varie coalizio-ni, come quelle della cancelliera Angela Merkel nei confronti di Jean-Claude Juncker, candidato ufficiale del Partito popolare europeo.
Non diverso disprezzo nei confronti degli elettori e della democrazia rappresentativa lo hanno manifestato gli eletti italiani del lista Tsipras, i quali si sono comportati come gli specchietti per le allodole della vecchia politica: appena eletti hanno rinunciato per lasciare il posto ad altri.
Da un assetto maggiormente democratico dell’Unione europea, nella quale pare finalmente ormai tramontata la dominante ideologia dell’austerity, è possibile la spinta ad una crescita sia economica sia politica, anche nei vari Paesi e aldilà di utopici costituzionalismi globali o ripetitivi per ogni problema, le cui rigidità non paiono – come la più avvertita dottrina anglosassone sta sottolineando – essere adeguate alla rapidità dello sviluppo tecnologico ed economico.
Il segno positivo finale che deriva dalle elezioni è che all’Europa dell’economia, con tutti i pericolosi errori compiuti, si stia finalmente sostituendo l’Europa dei diritti, le cui basi giurisdizionali sono peraltro ben solide e non intaccate da crisi, come hanno dimostrato alcune recenti sentenze delle Corti europee, anche in relazione agli assetti istituzionali degli Stati membri.
Da un’Europa, la cui unità politica democratica sia così riaffermata, la prospettazione dei problemi dei singoli Stati membri potrà essere risolta ad un livello superiore e la nuova politica europea potrà costituire nei confronti delle varie aggregazioni che si stanno organizzando in questo momento nel resto del mondo una voce autorevole che finora purtroppo è mancata.
Il Sole 24 Ore 01.06.14