Quel 40 per cento segna un passaggio. Una linea di discrimine. Nulla sarà più come prima, per Renzi e per l’intero Pd. Si discuterà ancora se la nuova stagione abbia avuto inizio con le primarie che hanno lanciato Renzi senza però vederlo vincitore, o successivamente con il plebiscito a favore del «cambiare verso», o ancora con l’azzardo della sostituzione di Letta. Ma la verità è che dopo le europee inizia un tempo nuovo anche per il governo.
Un capitolo è finito e un altro è stato cominciato dagli elettori. Gran parte degli italiani hanno fatto un investimento, hanno «legittimato» Renzi per una via traversa e lo hanno fatto attribuendogli una forza politica che forse mai era stata concessa ad altri leader nella seconda Repubblica (a dispetto della bolsa retorica sull’elezione diretta del premier).
Stando alle cose che ha detto nella conferenza stampa di lunedì e nella direzione Pd di ieri, il premier è ben consapevole delle speranze che ha suscitato e del valore aggiunto che ha portato al suo partito, aprendolo a ceti sociali tradizionalmente diffidenti, se non ostili, verso la sinistra. Ma è anche cosciente che senza il retroterra del Pd, senza i valori e le culture su cui è stato costruito, non si sarebbe creato l’argine contro lo sfascismo grillino. E la paura delle macerie ha contato, eccome, sull’esito del voto. Il Pd è diventato «partito della nazione» perché ha messo insieme questi due elementi: una leadership capace di indicare un percorso di cambiamento – e credibile anche perché non nasconde i difetti del proprio campo – e una comunità più ampia di persone che è in grado di garantire la tenuta delle istituzioni e di resistere a chi vuole solo distruggere. Non da oggi Renzi ha ripreso a tessere il filo dell’unità interna: lo ha fatto almeno dal giorno in cui si è gettato a capofitto nella campagna elettorale, rispondendo colpo su colpo agli attacchi di Grillo. E nei suoi comizi nelle piazze italiane è stato esplicito nel proporre un’alleanza generazionale, un patto tra i quarantenni oltre lo scontro del congresso, ormai così lontano negli argomenti da apparire preistoria. Il gruppo Pd dell’Europarlamento è il segno tangibile di un partito plurale, così voluto dagli stessi elettori. E non è privo di significato che Renzi abbia deciso di chiamare Roberto Gualtieri – eurodeputato che non votò per lui alle primarie, ma che a Strasburgo si è distinto per meriti e per il credito conquistato nel Pse – ad affiancarlo nella primissima fase delle difficile trattative a Bruxelles.
Si apre una stagione nuova di responsabilità nazionale per tutto il Pd. Anche per quelle aree e quei dirigenti che il congresso ha reso minoranze. Si è discusso fin qui il se, il come, le condizioni di una composizione unitaria degli organismi. Discussioni sofferte e non banali. Ma ora quel 40 per cento è scossa. Tutti i giovani dirigenti del Pd, ovunque fossero al congresso, sono proiettati di colpo in un’Italia e in un’Europa dove saranno guardati con occhi diversi dal passato. Che sia stato un accidente o un destino poco importa: sta di fatto che oggi il Pd è il «partito della nazione». Sulle sue spalle c’è la domanda incalzante di un Paese che chiede di risalire, di liberarsi delle zavorre, di ricreare lavoro, di fare riforme utili (non quelle che ci hanno spinto verso il declino), di dare continuità alla speranza e alla fiducia espresse nel voto. Attorno al Pd c’è da un lato una destra divisa, che cerca di riunirsi mettendo da parte qualunque contenuto, e dall’altro un Grillo senza bussola (che si appresta al matrimonio con l’ultradestra inglese di Farage). Il Pd deve consolidare il suo 40 per cento se vuole rendere il suo servizio all’Italia di oggi. È anche il solo modo per contare in Europa e per dare seguito ai cambiamenti promessi. Lasciamo perdere i nostalgici del bipolarismo coatto: tanto saranno gli italiani, nella loro libertà, a decidere se essere bipolari, tripolari o quant’altro. Il Pd deve soprattutto rafforzare la sua visione, radicarsi meglio nella società, sostenere il governo nelle scelte giuste e innovative, aiutarlo a correggersi dove sbaglierà. Più coraggio politico, meno politologia: talvolta il pragmatismo può essere una virtù.
L’unità necessaria attorno a questi obiettivi non vuol dire che il Pd debba ridursi a platea plaudente di un leader. Questo sarebbe un errore. Peggio, sarebbe una diserzione. Un partito della nazione deve essere un partito plurale. Che cerca anzitutto di animare la società, e rappresentarne il meglio. Che non dubita della volontà unitaria – pur davanti a un disaccordo – perché è chiara a tutti la responsabilità comune verso il Paese. Due vizi vanno combattuti. Il primo è concepire una funzione critica all’interno del Pd al solo scopo di spostare di qualche grado l’asse del partito, come se la sintesi fosse un abito di gesso, un monolite tendenzialmente chiuso a ciò che di nuovo emerge al di fuori. Il secondo è delegare l’articolazione del Pd a filiere personali, a catene di notabili, che si vestono da correnti senza avere delle idee. Partito plurale vuol dire partito-società. E autonomia delle istituzioni. Vuol dire più capacità di iniziativa al governo, purché riconosca al Parlamento e al partito un valore irrinunciabile per trainare la società verso una modernità migliore. Questa è la sfida.
Ed è bene che si torni a parlare di partito e di formazione, proprio mentre il governo affronta le sue enormi responsabilità.
L’Unità 30.05.14