Per una singolare coincidenza, pochi giorni dopo una consultazione elettorale che ha cambiato il modo in cui si fa politica in Italia, è stato pubblicato un documento ufficiale che analizza come è cambiata l’Italia. Si tratta del «Rapporto Annuale» dell’Istat, una fotografia ufficiale costruita con statistiche di prima qualità, non con sondaggi frettolosi, una ricognizione di quel che è successo al Bel Paese nel corso della crisi e di come ne sta uscendo.
Partiamo dalle famiglie: l’Istat documenta sei anni consecutivi di caduta del loro potere d’acquisto e sin qui si tratta di un’osservazione arcinota. Meno noto è che questo periodo di crisi si può dividere molto chiaramente in due parti. Dal 2008 fino a metà del 2012 le famiglie italiane hanno cercato di mantenere i livelli di consumi ai quali erano abituate e pur di ottenere questo risultato hanno ridotto fortemente il risparmio.
Da metà 2012 a fine 2013 è successo l’esatto contrario: i redditi sono, in media, scesi più lentamente oppure hanno smesso di scendere ma questo non si è tradotto in un aumento dei consumi – i quali anzi hanno continuato a contrarsi – bensì in un aumento di risparmi, cresciuti del 17,3 per cento nel 2013. La riduzione dei consumi è stata un comportamento generalizzato, sicuramente alimentato da un diffuso pessimismo, sul cui fuoco hanno soffiato anche i mezzi di informazione, anche al di là della reale scarsità di risorse.
In questa situazione di incertezza, non solo i consumi ma anche gli investimenti sono scesi più rapidamente del prodotto lordo e la caduta ha riguardato persino settori, come le tecnologie informatiche, che prima avevano sperimentato quasi soltanto andamenti positivi. Si tratta di una situazione in forte controtendenza, basti pensare che la Spagna, in difficoltà economiche maggiori di quelle dell’Italia, ha invece incrementato questi investimenti «moderni». La loro riduzione in Italia dipende da un accentuarsi del pessimismo degli imprenditori oppure da un’accentuata severità delle banche nel concedere credito? Probabilmente a questo risultato concorrono entrambe le cause ma in ogni caso lo scarso investimento in informatica appare come il maggior responsabile del mancato aumento della produttività italiana.
Di fronte a bassi consumi e bassi investimenti è entrato in funzione, per fortuna dell’Italia, il «motore di riserva», rappresentato dalla domanda estera. L’incidenza delle esportazioni sul fatturato è aumentata in tutti i settori, la bandierina del «made in Italy» ha ripreso a sventolare in quasi tutti i paesi del mondo. E’ sufficiente per gridare «evviva»? Il rapporto dell’Istat si dimostra molto cauto e considera questi successi potenzialmente transitori, interpretandoli come una reazione alla debolezza del mercato interno. Sembrerebbe, in altre parole, che le imprese si siano buttate a vendere all’estero pur di continuare a lavorare, probabilmente con margini ristretti, piuttosto che come frutto di un’autentica strategia di crescita: quando la domanda interna si risolleverà davvero, le imprese daranno minore importanza ai mercati esteri per concentrarsi sul mercato nazionale, specie se, come mostrano le previsioni degli enti internazionali, non ci aspettano, a livello mondiale, tempi di euforia economica.
Si può concludere che, se vuole davvero creare una ripresa sostenuta e sostenibile, l’Italia di Renzi deve «fare efficienza» prima ancora di «fare occupazione». Anzi, l’occupazione duratura non potrà che essere il risultato di una maggiore efficienza: «senza efficienza produttiva, l’Italia non è competitiva» potrebbe essere lo slogan che si ricava dall’analisi dell’Istat, marcatamente diversa dalle voci del mondo industriale che talvolta paiono legare il ritorno alla competitività alla semplice riduzione delle imposte.
Pur con queste difficoltà di fondo, l’Italia di Renzi si presenta in Europa come un paese che «ha fatto i compiti a casa». L’Istat ha calcolato che nel triennio 2011-13 la riduzione della spesa pubblica è risultata maggiore di quella inizialmente stimata: la spesa pubblica italiana è rimasta sostanzialmente stabile mentre è aumentata del 7,3 per cento in una Francia che ha difficoltà strutturali superiori a quelle italiane, del 3,6 per cento nel Regno Unito e del 2,4 per cento nella virtuosa Germania. Questo risultato è stato raggiunto grazie alla riduzione della spesa per il personale, ma soprattutto degli investimenti fissi, un taglio che ha avuto effetti negativi sia diretti sia indiretti sulla crescita italiana. Proprio per questo, Renzi ha buon gioco a insistere che i futuri investimenti pubblici, specie se intesi a migliorare la produttività, devono essere, almeno in parte, esclusi dai tetti alla spesa. Anche perché, secondo gli indicatori costruiti dalla Commissione Europea, la sostenibilità del debito pubblico italiano è tra le migliori.
La conclusione che si può trarre da tutto ciò è che il presidente del Consiglio italiano non deve andare in Europa con il cappello in mano (e non sembra proprio averne l’intenzione): l’Italia ha pagato, e ha pagato duramente, con una serie di correzioni dolorose ma necessarie, il prezzo di un ventennio di andamenti anomali, potremmo dire qua e là un po’ folli, ed è ora bene impostata per raggiungere gli obiettivi finanziari. Molti paesi europei, nonostante una salute apparente, si trovano in condizioni peggiori. E’ giunto il momento non certo di battere i pugni sul tavolo di Bruxelles bensì di richiedere con forza garbata, una rapida evoluzione in senso espansivo delle politiche europee.
La Stampa 29.05.14