Se siamo di nuovo al 1929, non è perché un altro panico di borsa sembri alle porte o si profili un’altra Grande depressione dopo la traversata del deserto di questi anni. No, è più semplice di così. Vale oggi ciò che disse allora John Maynard Keynes dopo una tornata elettorale segnata da più del 10 per cento di disoccupazione.
Con questi tassi di povertà, non si può sprecare neanche un penny di denaro pubblico che deve raggiungere chi più ne ha bisogno. Allora aveva votato la Gran Bretagna, domenica scorsa lo hanno fatto l’Europa e l’Italia. Ma le parole di Keynes devono suonare attualissime al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan o a quello del Lavoro, Giuliano Poletti, quando ricordano che un Paese in emergenza sociale ha bisogno di usare al meglio tutte le risorse che ha. Ieri l’Istat ha spiegato perché: tre milioni di famiglie in condizioni di povertà, nascite ai minimi da vent’anni, centomila giovani emigrati dall’Italia in cinque anni sono peggio che una situazione intollerabile. Sono la promessa che essa proseguirà: un Paese senza nuovi nati può solo invecchiare e sviluppare costi del welfare e tasse sempre più alte; un Paese che si specializza nell’esportazione dei suoi giovani più dinamici è destinato a rallentare ancora di più; e lasciare tre milioni di capifamiglia uomini o donne nella povertà, è la garanzia che neanche i loro figli studieranno, né creeranno abbastanza reddito o consumi di beni Made in Italy e anche i figli dei figli rischiano di restare in trappola.
È una spirale da spezzare prima che sia tardi. Ieri l’Istat ha provato ha proporre un difficile, non impossibile, modo di farlo: un reddito di sostegno di 800 euro al mese in ciascuno dei tre milioni di nuclei familiari che si trovano sul fondo della scala sociale. Costerebbe al bilancio 15,5 miliardi l’anno — circa l’1% del Pil — con la certezza che ciascuno di quegli euro non sarebbe risparmiato, ma speso in beni essenziali che sostengono i consumi e dunque la produzione (anche) delle imprese italiane.
Questa idea non può funzionare se porta ad aumenti del deficit, perché salirebbero i tassi d’interesse e nuove imprese indebitate chiuderebbero, creando nuovi disoccupati. Avrebbe senso invece se la spending review da anni in cantiere si rivelasse, come spera Padoan, una cosa seria. E funzionerebbe meglio ancora se rientrasse in una revisione ben fatta degli strumenti di sostegno a chi ha perso il reddito da lavoro, come annuncia Poletti. Questo però è il punto su cui Keynes, al solito caustico, polemizzava nel ‘29: mostrò che con il mezzo miliardo di sterline versate ai disoccupati «si sarebbe potuto costruire un milione di case, un terzo delle strade di questo Paese o si poteva dare un’auto a una famiglia su tre». Ma la perdita peggiore, aggiunse, è per «in forza e morale» dei disoccupati stessi, perché vengono pagati per non fare nulla.
Non suona molto diverso da noi, 85 anni dopo. Nell’ultimo quinquennio l’Inps ha versato oltre cento miliardi di euro in cassa integrazione, mobilità e assegni di disoccupazione per tenere milioni di persone fuori gioco: o nel lavoro illegale o immobili a casa a perdere competenze e motivazione. Non è neppure il caso di aggiungere che, stima l’Anas, con quella cifra si sarebbe aumentata di metà la rete di strade e autostrade. O che si sarebbe portata l’alta velocità ferroviaria in molte città del Sud. Il punto è un altro: con cento miliardi si sarebbero potuti offrire sussidi e percorsi di formazione a quegli stessi milioni di senza lavoro. La stessa offerta di sostegno al reddito proposta dall’Istat può vincolare metà dell’aiuto a un vero, efficace tirocinio: è il modello di Bolsa Familia inaugurata nel Brasile di Lula. In un momento in cui la povertà diventa un’emergenza del Paese, ignorare i modelli che hanno funzionato altrove sarebbe un lusso eccessivo.
Il tutto richiede, certo, di strappare anche i meccanismi della formazione al solito clientelismo e agli sprechi della politica locale. Ma l’Italia deve cambiare. E il momento è adesso.
La repubblica 29.05.14