Con il fiato sospeso aspettiamo tutti il grande botto, l’infrangersi dell’onda populista sulle coste della Sicilia o della Normandia, come sulle scogliere di Dover. Chi con preoccupazione, chi invece con speranza nella convinzione che si debba azzerare tutto per poter ricostruire. Ma non sarà questa la rottura dell’Europa storica, non perché il voto sarà ininfluente, ma semplicemente perché c’è già stata. Quello che accadrà questa sera sarà solo la registrazione dei danni di un terremoto che non è cominciato questa mattina ma almeno cinque anni fa. Un terremoto di cui ognuno già conosce gli effetti: li ha osservati a casa sua, nel suo quartiere, tra gli amici e i parenti.
Non abbiamo forse già visto spegnersi le luci di negozi che ci erano cari, di aziende e di uffici in cui lavoravamo?
Non abbiamo già visto spegnersi sogni e speranze?
Oggi si certificano rabbia, stanchezza e frustrazione. Le motivazioni sono reali e si chiamano disoccupazione, mancanza di prospettive, tagli lineari, corruzione e burocrazia. È tutto terribilmente comprensibile e la rabbia non se ne andrà se non verrà compresa, affrontata e risolta. Esiste solo una strada: lavoro e riforme.
Ma non può essere una strada di demolizione, non abbiamo bisogno di altre macerie, ma di ricostruire e per farlo ci vogliono competenze, attenzione e pazienza. Mi spaventa – questo sì e molto – sentir dire che la nostra salvezza è rappresentata da cittadini senza esperienza e alle prime armi. Sarebbe come sostenere, di fronte alle macerie delle nostre case crollate per il terremoto, che non vogliamo più architetti e ingegneri a progettare quelle nuove, perché anche loro sono colpevoli del disastro. E invece di cercare di capire se ci sono professionisti migliori degli altri, affidare progettazione e costruzione al panettiere dell’angolo, noto per la sua onestà, o al cartolaio di cui conosciamo la simpatia.
Il Parlamento europeo che esce dalle urne questa sera ha bisogno di persone competenti, capaci di fare la differenza nella preparazione delle leggi, di portarci un po’ di benessere, di difendere i nostri interessi, di far contare la nostra voce non solo di farla sentire perché capace di urlare di più. Quasi ognuno di noi, se deve scegliere un avvocato, preferisce quello che conosce meglio le leggi e si fa ascoltare dalla corte a quello che si fa notare solo perché grida di più.
Abbiamo bisogno di ricucire l’Europa, il suo tessuto sociale, di farne uno spazio in cui la voce dei cittadini conta. Ma abbiamo anche bisogno di ricordare che cos’è l’Europa, quanto faccia la differenza – anche in positivo – nelle nostre vite. È ridicola la semplificazione che riconduce tutti i mali e i problemi all’Unione e le possibilità di salvezza alla prospettiva di rinchiuderci nei nostri Stati nazionali. Con un minimo di obiettività, ne basta poca, ci possiamo rendere conto che i problemi di noi italiani ce li siamo fabbricati in casa, non li abbiamo importati dall’estero e che molto del cambiamento è invece figlio degli stimoli di uno spazio comune europeo. Come ha ricordato su queste pagine pochi giorni fa Vladimiro Zagrebelsky, lo sono molti degli avanzamenti sociali a cui stiamo assistendo – dalla semplificazione del divorzio, alla parificazione dei figli, fino ai diritti delle coppie che necessitano di assistenza per procreare -, così come la sicurezza alimentare, dei giocattoli o della salute in un Paese che è avvelenato da troppe Terre dei fuochi.
Ricordo perfettamente la sensazione che ho provato quando ho preso in mano la mia prima banconota da venti euro, una sensazione di forza, di appartenere a qualcosa di più grande. Mi dava ebbrezza l’idea di poter pagare una birra a Berlino, una fetta di torta a Vienna, la stanza di un pescatore in un isola greca o un libro a Parigi con la stessa moneta con cui compravo il giornale sotto casa in Italia. E la fine delle frontiere, la possibilità di viaggiare senza permessi, visti, senza passaporto, di lavorare e studiare fuori dai confini, di essere più liberi. È stato un sogno, che oggi è quasi svanito, anche perché – come accade sempre – diamo per scontato tutto ciò che abbiamo conquistato.
La generazione più giovane, quella che più è attratta dal vento del populismo, è la più europea che ci sia mai stata: i ragazzi di Monaco oggi sono uguali a quelli di Manchester e di Torino, ascoltano la stessa musica, prendono gli stessi aerei, si vestono nello stesso modo, comunicano in maniera identica e hanno gli stessi problemi e le stesse speranze.
È per loro che bisogna ricucire il tessuto sociale europeo: non meritano altre macerie, scenari di rotture apocalittiche in nome della catarsi, ma uno spazio di pace e libertà in cui costruirsi il futuro.
Non restate a casa oggi, non comportatevi come quei turisti che si tengono a distanza dai disastri, che non fanno niente per dare una mano, ma che sono pronti a scattare una foto ricordo della sciagura.
La Stampa 25.05.14