Non possiamo perdere la scommessa di un mondo migliore, bisogna evitare le (troppe) storture italiane e europee, combattere il malaffare in casa, diradare la nebbia che avvolge tutto e tutti e impedisce nei fatti di cambiare davvero. Guai, però, a buttare il bambino (l’euro) con l’acqua sporca. Guai a pensare per un solo momento a fughe nazionaliste che ci farebbero ritrovare con obbligazioni in euro e una lira supersvalutata per pagarle, materie prime (molto) più care e ulteriore caduta del Pil che annullerebbero i benefici per l’export, tassi in rialzo, insolvenze sui bond, probabili default a catena di imprese, banche e enti locali fortemente indebitati sui mercati internazionali, per non parlare dei problemi che avrebbe il Tesoro della Repubblica italiana. Si è persa ancora una volta l’occasione di parlare di Europa e si è lasciata la scena a una bruttissima campagna elettorale giocata tutta sul terreno degli insulti e dell’interesse di bottega per ragioni vere o presunte di supremazia di politica interna. Man mano che si è andato affievolendo il progetto europeo, si è parallelamente indebolita la consapevolezza che la collaborazione tra i popoli non è né ovvia né scontata e va, invece, faticosamente costruita con visione politica, lungimiranza e solidarietà. Non è di poco conto prendere atto che la crisi non è solo dei Paesi periferici, ma è strutturale e riguarda quasi tutti i Paesi europei con la sola eccezione della Germania. Bisogna chiedersi se è ancora un modello al quale tutti gli altri si debbono ispirare o se essa stessa debba condividere qualcosa di diverso.
Il dubbio di molti è che la Germania si sia appropriata di qualcosa che non le appartiene e l’impegno concreto deve essere quello di non arrivare al paradosso che venda a tutti ma non compri da nessuno. È bene che realizzi un surplus consistente e che anche gli altri Paesi ne accumulino vendendo di più all’estero, fuori dall’Europa, ma che cosa dobbiamo fare per spendere in casa questi surplus e fare crescere la domanda interna? Perché rinunciare a spendere questa ricchezza in Europa? La Cina e gli Stati Uniti hanno messo soldi nel sistema, hanno fatto una politica nel campo dell’energia, la Russia si muove a 360 gradi, e noi dove siamo? Che cosa facciamo? Questo è il punto.
Bisogna andare a votare perché l’Europa faccia una vera azione anti-crisi, si doti delle armi monetarie “non convenzionali” giuste e metta al centro della sua azione di politica industriale la manifattura e l’innovazione, possa pesare (davvero) su quadranti geo-politici delicati come quelli di Ucraina, Siria e Libia, completi il suo disegno politico, faccia finalmente gli Stati Uniti d’Europa e cambi concretamente la politica europea. Questa deve essere la politica estera italiana e su questa politica vanno costruite le alleanze giuste con Francia, Belgio, Spagna per fare in modo che l’Europa torni ad essere amica dei suoi cittadini, attui investimenti (seri) in infrastrutture e in ricerca, si svegli dal lungo letargo determinato da una malattia ormai chiara a tutti che è l’eccesso di austerità e di rigore, non il senso (opportuno) della disciplina di bilancio e la virtù dei conti.
Il fastidio che c’è in giro per l’Europa non è molto diverso dal nostro e noi siamo meno diversi di quanto pensiamo di essere rispetto agli altri. Il rischio vero è quello di un voto di protesta non contro l’Europa, ma contro una contingenza molto sfavorevole determinata dalle conseguenze di una crisi finanziaria globale e da una (forte) amnesia politica. Il rischio (vero) che si arrivi a dire che non c’è più nulla da fare sulla base di una condizione di fragilità politica e di uno stato d’animo diffuso mentre si deve, invece, ripartire proprio da qui per cambiare con uno spirito costruttivo, un’idea condivisa di medio termine, un principio comune di solidarietà.
Purtroppo, il voto di oggi non è solo per l’Europa, è un peccato che non sia così, è stato caricato di una forte valenza di politica interna, si cercherà di identificare il perimetro reale della protesta, quanti votano e quanti si astengono. La verità è che c’è una forte sfiducia non tanto o non solo (come appare a prima vista) nella casta, ma nella capacità della politica italiana di costruire un percorso riconoscibile nel quale si possano risolvere almeno i problemi degli ultimi dieci anni. Non si può oscillare tra una politica-spettacolo con vecchi e nuovi primi attori e una politica che cede alla tentazione “elettorale” di calcare lo stesso palcoscenico piuttosto che individuare e perseguire un cammino faticoso ma credibile nell’azione di governo. Non abbiamo bisogno di slogan, ma di una consapevolezza e di una capacità operativa all’altezza della delicatezza del momento. Anche il presidente del Consiglio si deve rendere conto che la burocrazia è il male del secolo non solo per le colpe e i vizi degli alti burocrati ma perché è male organizzata, ingessata da decine di migliaia di norme che rischiano di infilare sotto lo stesso cono d’ombra ladri incalliti e gentiluomini che hanno deciso di servire lo Stato. Altrimenti, il risultato è che prevale il conservatorismo: io non firmo niente e le conseguenze le pagano le imprese, i lavoratori che perdono l’impiego e i cittadini in generale. Bisogna rendersi conto che è il politico la burocrazia, il primo burocrate è il politico che è responsabile insieme con uno, un altro e un altro ancora, e tutto ciò produce la “non responsabilità” sulla base di un rimpallo di slogan, decisioni dettate dalla pancia e non dalla testa.
Il caso italiano
e l’esempio spagnolo
Non solo c’è un problema di crisi in Europa, ma di che fare in Italia, di una combinazione esplosiva tra instabilità politica, debito pubblico e, soprattutto, bassa crescita che va scongiurata assolutamente. Mentre la fitta nebbia della polemica politica avvolge tutto e tutti, come già detto, in attesa di capire se chi dice di volere uscire dall’euro fa sul serio o no, la gente se ne va, i capitali se ne vanno subito. Questo clima terribile oggi ci ha portato la volatilità, domani potrebbe riservarci sorprese più amare. L’esempio della Spagna è sotto gli occhi di tutti. Non si è fatta problemi a chiedere aiuto: oggi le banche grazie ai fondi europei hanno ripreso a erogare mutui, grazie ai soldi tedeschi la Volkswagen ha investito lì, la riforma del mercato del lavoro che punta sugli accordi aziendali ha fatto breccia in un Paese dove la flessibilità in uscita è già da tempo una realtà. Soprattutto, emerge una stabilità politica che dà la sensazione di sapere dove andare e argina la diffusione di un sentimento anti-europeo. L’Italia ha bisogno di fare in casa cose che deve fare da (troppo) tempo per essere credibile in uno schieramento che chieda (a ragione) un’Europa diversa. Ha bisogno di una politica che sappia fare riforme istituzionali vere non pasticciate (bene l’uscita dal bicameralismo perfetto) e riforme economiche (un segnale incompleto ma positivo sul mercato del lavoro è stato dato) altrettanto incisive. Questa politica la meritano il talento sprecato dei nostri giovani e quella parte sana del ceto artigiano e dell’impresa che innova e vive di mercato e che nulla ha da spartire con un’impresa (ahinoi diffusa) che scova privilegi e rendite nella spesa pubblica improduttiva, alimenta un circolo vizioso di corruzione e degrado che tanto male fa al nostro Paese e alla sua attrattività di investimenti esteri. O siamo capaci di fare cose serie e dimostriamo, nei fatti, una visione adulta del mercato e una capacità politica alla voce fare o siamo condannati alla marginalità e al declino.
Se la gente non ha il lavoro pensa che tutto è sbagliato (anche ciò che è giusto). Se facciamo solo chiacchiere la gente che non ha un lavoro rischia di diventare la maggioranza e, allora, sono problemi seri. Ricordo l’incontro con Toni Servillo, nel mio Viaggio in Italia, al Piccolo di Milano di un po’ di tempo fa, e una frase che mi torna nella mente: «Viviamo tempi brutti dove si dubita sempre di tutti». Non posso credere che questo sia il destino dell’Italia. Non posso credere che le parti sane della politica e della società civile, del mondo della produzione, del sindacato, della finanza e del ceto professionale, non abbiano la forza di girare pagina e di farlo pragmaticamente. Ognuno faccia ovviamente nell’urna la sua scelta, ma ci vada e sappia che il sentiero del cambiamento, in Italia e in Europa, è obbligato. L’alternativa sono l’aumento della povertà e delle diseguaglianze, l’ulteriore diffusione della corruzione e della criminalità organizzata. Dio ce ne scampi.
Il Sole 24 Ore 25.05.14