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"Migranti, le foto mai viste dei morti in fondo al mare", di Attilio Bolzoni

Guardate cosa c’è oltre le nostre parole, i nostri articoli, le storie che raccontiamo ogni volta che s’inabissa un barcone. Guardate questi corpi che si abbracciano, in fondo al mare. È tutto quello che resta di loro. Corpi.
I corpi abbracciati dei migranti vittime della strage del 3 ottobre in Sicilia
SUUNOs fondo azzurro, bello, dove intorno sembrano nuotare anche i pesci o forse sono solo piccole boe trascinate giù dalle correnti.
Guardate e poi ripensate alle parole: naufragio, migranti, Mediterraneo. Scivolano così velocemente che neanche ce ne accorgiamo, le ripetiamo o le scriviamo sempre il giorno dopo, un reportage, un titolo, un numero — 120, 285, 366 — che riferisce la portata della «tragedia». È un’altra di quelle parole: tragedia, tragedia del mare. Ci siamo abituati, siamo addestrati a riportare con dovizia di particolari le dinamiche degli affondamenti, ogni dettaglio curioso, ci siamo specializzati nel ricostruire le vite degli altri che non ci sono più.
Khaled del Marocco che ha perso il figlio al largo di Zarzis, Samir che si è salvato fra Cala Creta e Cala Croce, la ragazza somala senza nome che ha partorito mentre moriva a poche miglia da Porto Empedocle. È diventata la nostra normalità, siamo noi l’Italia che ha imparato tutto sui migranti che affogano e su come affogano, sappiamo da dove vengono e dove vogliono arrivare, quali sono i loro sogni, cosa hanno lasciato. Sappiamo tutto di loro. In molti proviamo pietà, alcuni provano o dicono di provare fastidio. In molti soffriamo, altri s’incazzano perché sono morti qui, proprio qui da noi, in quell’Italia che non li vorrebbe mai né vivi e né morti. Politicamente corretti e politicamente scorretti, pregiudizi, ideologie, razzismi, stupidità che diventa malvagità. E c’è chi prega, chi dichiara, c’è chi promette e chi minaccia.
Ma li avete visti, li avete visti davvero questi corpi?
Guardateli da vicino per favore, guardateli e diteci se abbiamo visto bene anche noi, diteci se c’è un uomo che stringe con le sue braccia una donna, se ci sono due neri stesi sulla sabbia — chissà a quale profondità — che sembrano dormire, se c’è un ragazzo a testa in giù e a piedi in su che cerca disperatamente un appiglio per resistere un altro secondo, se c’è una ragazza che non ha volto ma una cintura che luccica anche in fondo al mare. Sembra in posa, come una modella. Una modella morta.
Non avrei mai immaginato di ritrovarli così, quelli di cui tanto ho scritto in questi ultimi quindici anni senza sapere nulla e tutto di loro, dei loro viaggi, delle loro paure. Non avrei mai immaginato di ritrovarmeli davanti agli occhi incastrati a prua o a poppa, immobili come manichini, come se stessero ostentando la loro naturale morte. Sì, si può ostentare anche la morte per coloro che sanno di morire, che stanno morendo senza una patria che li ricordi o una famiglia che li pianga, senza una tomba dove riposare e con le scarpe ai piedi.
È quello che gridano nel loro silenzio gli uomini e le donne di queste foto, è quello che gridano questi corpi.
Non l’avrei mai immaginato. Nemmeno quando la domenica del 15 settembre del 2002 stavo su un gommone di fronte alla spiaggia di Realmonte e i sommozzatori sollevavano i cadaveri degli etiopi rimasti intrappolati sul loro barcone, a mezzo miglio dalla costa, davanti allo scoglio degli “ziti”, gli innamorati. I cadaveri — erano decine — li vedevo issare a bordo eppure mi sembrava “logico”, normale anche quello: erano annegati, morti per asfissia. Un vigile
gridava: «Tira, Rosario tira». L’altro tirava e una volta risaliva una ragazzina nuda, un’altra volta un vecchio o un bambino riccio. Più di loro, inanimati, già rigidi, più della loro morte mi aveva colpito cosa custodivano nelle tasche dei giubbotti: bacche. Si nutrivano solo di bacche mentre attraversano il grande mare. Ma non riuscivo a vederli, a immaginarli giù, quando erano ancora sotto.
Dove erano morti. Non riuscivo a capire come erano morti e come avevano scelto di morire, in quale posizione, da soli, vicini a qualcuno o lontano da tutti.
Non l’ho immaginato neanche il 4 ottobre scorso, la mattina dopo che avevano trasportato questi stessi corpi che vediamo adesso nelle foto nel grande hangar dell’aeroporto di Lampedusa, una morgue sterminata dove mi sono aggirato come in trance fra bare ancora vuote, teloni rigonfi di cadaveri, necrofori. I morti sembravano manichini che imploravano, che maledivano noi che eravamo ancora vivi. Ogni tanto scorgevo un seno che spuntava da un telone, un gomito, un ginocchio, un piede, una scarpa. Ma non avevo capito nemmeno quella volta. Non avevo capito come si muore in mare. Prima, quando si muore davvero. Quando finisce la vita. Quell’istante.
Delle tragedie, dei naufragi nel “cimitero Mediterraneo” ecco cosa ci consegnano queste fotografie crude della Guardia Costiera: loro, solo loro. Con gli ultimi gesti d’amore o di terrore, con quei fogli che spuntano dai jeans — quanti ne abbiamo visti, pieni di numeri di telefono, di nomi, di indirizzi in Germania o in Francia, amici, parenti, passeurs e trafficanti di uomini — con le loro magliette a righe o a torso nudo, con le braccia strette sotto la pancia o allargate a più non posso e le unghie che scavano nella sabbia.
È tutto quello che ci rimane dei migranti che arrivano. Forse intuiamo come hanno voluto morire quando sapevano che sarebbero sicuramente morti,
scegliendo un legno al quale aggrapparsi o abbandonandosi sul fondo, tutti in qualche modo composti, dignitosi nell’offrirci la loro fine.
Cosa dovremo allora scrivere la prossima volta? Quali parole e quali aggettivi dovremo usare per rappresentare la loro morte? Cosa dovremmo dirci più di quanto questi corpi ci stanno dicendo?

La Repubblica 15.05.14