«Pressioni e coartazioni» per cacciare Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi? Ma di che cosa stiamo parlando? Giorgio Napolitano, tirato in ballo per l’ennesima volta, per l’ennesima volta è stato costretto a rimettere i fatti sui piedi: le dimissioni dell’ex cavaliere nel novembre del 2011 furono rassegnate «liberamente e responsabilmente». Tant’è che Berlusconi stesso con il presidente fece cenno a null’altro che ai suoi guai domestici.
Basterà per porre fine alla nuova sceneggiatura della teoria del «complotto»? Dovrebbe bastare, se si rimanesse ai fatti. Che sono semplici: un ex Segretario al Tesoro americano ha scritto che «funzionari europei» nell’autunno del 2011 chiesero all’amministrazione Obama di fare pressioni perché Berlusconi se ne andasse; i presidenti della Commissione e del Consiglio Ue ribattono che no, semmai fu il contrario: furono gli americani a chiedere agli europei di darsi da fare per l’allontanamento del reprobo facendone una condizione per l’assenso di Washington a un prestito di 80 miliardi all’Italia da parte del Fmi. Prestito che poi, com’è noto, non ci fu perché il governo italiano non lo chiese. Che abbia ragione Tim Geithner oppure dicano il vero José Manuel Barroso e Herman Van Rompuy non cambia in alcun modo la sostanza di quel che accadde davvero in quell’autunno: che il
governo guidato da Silvio Berlusconi con Giulio Tremonti ministro fosse giudicato tanto a Bruxelles che a Washington una jattura da superare il più presto possibile era ampiamente risaputo e che il modo perché l’auspicato superamento avvenisse, e al più presto, fosse oggetto dei contatti tra i leader dei governi tra loro e con le istituzioni dell’Unione ne era la logica e naturalissima conseguenza. Lo scandalo che ne menano in queste ore l’ex cavaliere e i suoi amici gridando per l’ennesima volta al complotto altro non è che il frutto di una grave incomprensione sulla natura dell’Unione europea. L’equivoco consiste nel fatto di porre la questione in termini di sovranità violata. Berlusconi e i suoi sostengono che americani ed europei, con la complicità – va da sé – di Napolitano, avrebbero fatto violenza alla volontà del popolo italiano che quel governo se l’era scelto e votato. Si soprassiede sul fatto che le cancellerie e le istituzioni di Bruxelles in quel momento ritenevano che Berlusconi e Tremonti con le scelte che facevano e quelle che non facevano stessero mettendo in pericolo non solo l’Italia ma tutta l’Unione. Allora era dato per scontato il fatto che se l’Italia fosse
arrivata al default, come era nell’ordine delle cose senza una svolta radicale, tutto il sistema europeo sarebbe saltato e le conseguenze sarebbero state gravissime per tutti: la dissoluzione non solo dell’euro, ma forse anche dell’Unione stessa. Il cambio di governo a Roma era considerato ineludibile se si voleva scongiurare il disastro: favorirlo non era un’ingerenza, ma una forma di autodifesa. La questione investe il fondamento stesso dell’Unione europea, che intanto esiste in quanto si basa sulla cessione di quote di sovranità da parte degli stati che ne fanno parte. Può sembrare un richiamo ovvio, ma nei momenti di tensione e di difficoltà l’ovvietà tende a non essere più tale. Basta guardare agli slogan che dominano larga parte della campagna elettorale di questi giorni, non solo (ma soprattutto) in Italia per rendersene abbondantemente conto: un coro di «riprendiamoci la nostra sovranità» che va da Marine Le Pen ai nemici dell’euro tedeschi e scandinavi e, nel loro piccolo, da Giorgia Meloni a Grillo passando per Salvini, senza che nessuno spieghi mai che cosa se ne debba poi fare di questa sovranità riconquistata. C’è una evidente rinazionalizzazione della politica europea, in Europa e sull’Europa, che tende inevitabilmente a riaccendere, con nuovi egoismi, vecchi nazionalismi.
Chi vuole evitare che ciò avvenga sempre più deve dedicarsi a chiarire il Grande Equivoco: non è la cessione di sovranità il torto che viene consumato ai danni dei cittadini degli stati europei ma è, piuttosto, la mancanza di democrazia nell’apparato istituzionale dell’Unione, la sua incompiutezza democratica. L’iniquità delle trojke e di tutti gli altri strumenti di commissariamento delle economie degli stati in nome della disciplina di bilancio non sta nell’essere imposta dall’esterno, dall’alto e da lontano, ma nell’essere imposta da organismi e istituzioni che non sono stati votati e che non rispondono ad alcun parlamento. La cosa più grave che avvenne al vertice del G20 a Cannes nel novembre del 2011 non fu la messa in mora del «legittimo governo italiano», condita con gli offensivi sorrisetti di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, ma l’odiosa imposizione a George Papandreu di annullare il referendum con cui i cittadini greci sarebbero stati chiamati a votare sui provvedimenti della trojka. La sinistra europea sbagliò allora a non ribellarsi a quella prepotenza e lo fece perché tardava, e tarda ancora in una certa sua deleteria attitudine a uniformarsi al pensiero unico economico della destra, a comprendere il nesso strettissimo che esiste tra il monetarismo e il neoliberismo che hanno ispirato tutta la strategia europea contro la crisi del debito e dell’euro e il modo autoritario, antidemocratico, con cui quelle scelte sono state imposte: «affare» di Bruxelles, della Banca centrale europea, del Fmi e delle cancellerie che contano. E partiti, sindacati e cittadini non ci mettano bocca. Il voto ormai vicino per il Parlamento europeo può essere un’occasione per riaprire, dentro le istituzioni dell’Unione, il capitolo della democrazia che manca. Il fatto che i cittadini siano invitati a votare, con il partito, il candidato alla presidenza della Commissione Ue, la cui scelta che fino all’attuale Barroso è stata gelosissima prerogativa dei governi, è un passo avanti. Ma se non sarà accompagnato, non solo ma soprattutto a sinistra, da una presa di coscienza sull’urgenza di superare il deficit di democrazia dell’Unione potrebbe servire a poco.
L’Unità 15.05.14