Boko Haram rappresenta la fatwa ultimativa del nostro tempo. Si rivolge contro la nostra ragion d’essere comune, contro la missione e la giustificazione della nostra esistenza produttiva. Ma rappresenta anche la maggioranza dei mussulmani della Nigeria?
In base alla mia esperienza degli ultimi anni, la risposta a questa domanda è un inequivocabile no. La notizia più recente a questo proposito è che il governatore dello Stato federale dell’Osun, un musulmano, visibilmente adirato, ha esortato i musulmani «a ribellarsi a queste atrocità commesse da gruppi fondamentalisti nel nome della religione», e ha dichiarato categoricamente: «La nostra religione rifiuta ciò che questa gente malvagia ha intende compiere nel nome dell’Islam. Non possiamo tacere, perché Boko Haram è il male». Ora queste voci, anche se un po’ in ritardo, dichiarano che i decreti — cioè le fatwa — di Boko Haram sono privi di valore e inaccettabili per il resto della società. Fare di meno significherebbe riconoscere a Boko Haram il potere di esprimere la volontà di tutta l’umanità.
Non possiamo suggerire che tutti si uniscano alle forze armate in uniforme che effettuano i loro interventi di soccorso nelle caverne e nelle paludi della foresta, non solo per annientare il nemico, ma per salvare le nostre figlie rapite con la violenza dalle loro scuole per farne delle schiave sessuali — non vogliamo soltanto parlarne, ma vedere negli occhi l’orrore, per riconoscere la sventura che minaccia il nostro popolo. Queste ragazze avranno bisogno di aiuti massicci quando torneranno a casa. Chi ora si rifiuta, tradisce il nostro avvenire e incoraggia la prosecuzione dei crimini contro la nostra umanità. Non c’è alternativa: dobbiamo combattere contro il nemico. E non è vuota retorica — il campo di battaglia va oltre il terreno fisico. Questo campo di battaglia non appartiene alla mera fantasia, ma alla memoria e alla storia, la nostra storia.
Abbiamo già dimenticato la distruzione delle monumentali statue di Buddha, dei monumenti e delle tombe di Timbuctù, con i loro antichissimi manoscritti, luoghi della sapienza islamica, più antichi dei capolavori del Medioevo europeo? I veri seguaci del profeta Maometto vanno fieri di essere il popolo del Libro: per questo a Timbuctù c’erano quei manoscritti amorevolmente protetti e curati da generazioni di musulmani. E da che parte stiamo, quando i bambini saltano in aria nelle scuole e vengono massacrati, gli insegnanti e i genitori vengono cacciati perché osano disubbidire alla fatwa che vieta qualsiasi istruzione? Rimaniamo nelle nostre caserme? Qui parliamo di una guerra che ha raggiunto il suo orribile culmine già quattro anni fa. Che oggi essa, con il rapimento di scolare che dovranno servire come bestie da soma al nemico, abbia raggiunto una dimensione tanto allarmante da scuotere i nostri sentimenti umani non può farci dimenticare gli errori passati, i nostri silenzi.
Consentitemi di proporre ai dirigenti di questo Paese un semplice e diretto esercizio di immedesimazione. Per favore, immaginate di essere una delle più di mille vittime dell’ultimo bagno di sangue e di trovarvi in ospedale. Non potete muovervi né parlare; potete solo muovere le ciglia. I visitatori si susseguono: rappresentanti locali dello Stato, ministri, funzionari, governatori, prelati, fino al vertice della piramide del potere, il Presidente della Repubblica. Vi fanno perfino promesse: cure mediche gratuite, riabilitazione. I visitatori si congedano, il vostro stato d’animo è sollevato. Sulla parete di fronte è stato premurosamente appeso un televisore, acceso perché possiate riprendervi dai vostri traumi e possiate offrire al vostro spirito una via di fuga. Qualche ora dopo che i vostri illustri visitatori se ne sono andati, aprite gli occhi e vedete sullo schermo, dal vivo, questi visitatori felici e beati nel corso di una manifestazione elettorale, dove il fiduciario sollecita l’iniziativa popolare per una raccolta di fondi per la campagna elettorale. Questo leader nazionale conclude il suo intervento con una virtuosa esibizione di danza che farebbe impallidire d’invidia Michael Jackson.
I titoli di oggi sui media parlano di quasi duecento ragazze scomparse. Anche se fossero solo venti o dieci o uno solo: è questo il momento giusto per ballare? Cosa c’è di così urgente nella campagna elettorale che non si possa rinviare? Tutto il mondo guarda a noi con occhi pieni di lacrime. Ma noi ci guardiamo allo specchio e iniziamo un nuovo numero di danza. Cosa ne è stato di questo paese? Èun miracolo che qualcuno ancora agiti un pezzo di stoffa chiamato bandiera e che canti a voce alta una melodia priva di fantasia che chiamiamo inno nazionale. È diventato un lamento funebre. E quella che chiamiamo bandiera è un sudario ora adagiato sul nostro popolo: un popolo che non è capace neanche di tenere l’atteggiamento dignitoso dell’autodenuncia e del pentimento.
La realtà ci guarda negli occhi, in mezzo ai feriti, in mezzo ai morti. E basterebbe un impegno riconoscibile nel rispondere al grido «riportate indietro le bambine ». Nerone suonava solo la lira, quando Roma era in fiamme. Ma non si narra che sulla sua melodia egli abbia anche danzato. Eppure esiste un’espressione per definire questo tipo di ballo: viene chiamato il ballo dei morti. E sappiamo tutti cosa significhi.
© Frankfurter Allgemeine Zeitung ( Traduzione di Carlo Sandrelli)
La Repubblica 12.05.14