Il mondo è cambiato, diceva Gianni Rodari all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso. Io scrivo per i ragazzi di oggi, astronauti di domani. Ragazzi che vivono e apprendono in un mondo molto diverso da quello conosciuto dai loro padri e dai padri dei loro padri. Occorre una nuova scuola. Occorre un nuovo metodo d’insegnamento. Occorre una «nuova grammatica della fantasia». Non è un caso se cita anche Gianni Rodari, che con Collodi è stato il più grande scrittore per ragazzi nella storia della letteratura italiana, e chiede una nuova grammatica della fantasia, Luigi Berlinguer, cultore di storia del diritto, già Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, parlamentare europeo uscente del Partito Democratico e soprattutto analista tra i più attenti del rapporto tra scuola e società, nel libro che ha appena pubblicato con l’editore Liguori dal titolo, niente affatto casuale, di Ri-creazione. Una scuola di qualità per tutti e per ciascuno. Un libro con cui il cultore di storia del diritto esce dal contingente per collocare la scuola nel mondo che cambia, sia proponendo una rivoluzione nel modo di insegnare dopo quasi due millenni di consolidata trasmissione del sapere da chi sa a chi non sa (o top-down, come dicono gli inglesi), sia ridefinendo il rapporto tra scuola e democrazia, quattro secoli dopo che Jan Amos Komensk ha indicato nella scuola di massa e nell’educazione per tutti la nuova frontiera della modernità e lo strumento con cui tutte le persone possono migliorare la propria condizione sociale e spirituale. Luigi Berlinguer entra nel dettaglio dei singoli aspetti in cui si declina il nuovo rapporto tra scienze e società. Ma conviene seguirlo nel discorso più generale. Questo rapporto è diventato così forte, così intimamente interpenetrato che chiede sia alla scuola sia alla società di ripensare se stesse. Di ri-crearsi appunto. Ri-fondando la democrazia sulla conoscenza. E conferendo alla conoscenza una dimensione democratica, di potente (del più potente) fattore di inclusione sociale. L’analisi, in estrema sintesi, è questa. Il mondo sta cambiando. Viviamo in una nuova era, che molti hanno definito della conoscenza. A partire da quel Jacques Delors che oltre venti anni fa indicò all’Europa la necessità di ridefinire le sue politiche per diventarne leader assoluta. In questa nuova era, la conoscenza non solo continua ad avere quel valore intrinseco che, come diceva Comenio, consente all’individuo che la possiede di progredire sul piano spirituale e sociale. Ma ha anche un valore economico – nel senso originario, di gestione la migliore possibile della casa comune – che consente il progresso delle nazioni. Oggi sempre più la società e la stessa economia chiedono conoscenza. Chiedono che una parte considerevole, addirittura maggioritaria, delle persone in età da lavoro abbia almeno 15/20 anni di studi alle spalle e continuino ad apprendere per tutta la vita (long life learning). Nel medesimo tempo nuovi strumenti tecnologi – il computer, la rete di computer, la rete delle telefonia mobile, le reti radiotelevisive, la rete delle reti – consentono l’accesso a e l’uso creativo di una quantità di informazione e di conoscenza (ebbene sì, anche di conoscenza) che non ha precedenti nella storia. Parafrasando Rodari, noi comunichiamo con i ragazzi di oggi, cybernauti di oggi. È chiaro che noi, immigrati digitali, dobbiamo riscrivere daccapo – ri-creare, appunto – la nostra grammatica della fantasia, se vogliamo comunicare e se vogliamo contribuire all’apprendimento dei ragazzi di oggi, che sono nativi digitali. Ecco, dunque, la doppia sfida che la scuola deve affrontare e vincere. Una è la sfida della quantità. Molti, tendenzialmente tutti devono poter compiere 15/20 anni di studi e continuare, poi, con il long life learning. È un diritto di ciascuno. Ma anche un bene comune, cui una nazione moderna non può rinunciare, pena la sua stessa marginalizzazione culturale ma anche economica. L’altra, è la sfida della qualità. Occorre superare l’idea che si possa trasmettere, con l’approccio top-down, un sapere uguale per tutti. Ma occorre sempre più acquisire l’idea – la nuova grammatica della fantasia – che consente a ogni singolo studente a ogni «soggetto individuale», per dirla con il sociologo francese Alain Touraine di partecipare in maniera critica alla sua stessa formazione, secondo un percorso personalizzato che si modella sulle esigenze, la curiosità, le inclinazioni, la storia di ciascuno. La scuola deve diventare ri-creare se stessa e diventare «scuola del soggetto», in grado di perseguire l’uguaglianza nella diversità. In altri termini, nell’era dei nativi digitali la scuola non deve trasferire il sapere, di cui non ha più il monopolio, perché il sapere è diffuso, ma deve insegnare a ciascuno ad apprendere. Non è facile. Non è scontato. Perché richiede agli studenti di diventare attori del proprio destino culturale. Di apprendere ri-creandosi, in una dimensione che è prima di tutto piacere. Di conseguenza, chiede al docente di trasformarsi da «agente che trasmette» a «guida che connette». Berlinguer è un illuminista, che indica le opportunità cui spalancano le nuove tecnologie. Ma è un illuminista realista. Sa che, così come è struttura, la scuola, di ogni ordine è grado, ancorché in maniera molto diversificata, è in piena emergenza. Quantitativa mancano le risorse, la scuola è sottoposta a tagli pesanti, ai tagli più pesanti riservati alla pubblica amministrazione ma, anche, qualitativa. Sa che la vecchia scuola è, appunto, vecchia. Che il mondo intorno all’aula scolastica è il mondo del XXI secolo, mentre l’aula metaforicamente, ma non solo è ancora quella del XIX secolo. Tuttavia non partiamo da zero. Certo, ci siamo dimenticati di loro, ma il nostro Paese che ha dato i natali a Maria Montessori e a don Lorenzo Milani, pionieri della scuola partecipata e personalizzata; che ha dato i natali a Gianni Rodari, teorico della ri-creazione (nel suo duplice senso) continua dell’apprendimento, ha al suo interno le capacità per accettare e cercare di vincere le sfide dei tempi, perseguendo non un apprendimento fine a se stesso. Non la semplice acquisizione di conoscenze e di nozioni. Ma un apprendimento per competenze. Per spiegare la differenza tra i due concetti, Berlinguer ricorre a uno degli aforismi che hanno contribuito a rendere famoso, già nel Seicento, Michel de Montaigne: «Noi teniamo in serbo le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. Bisogna farle nostre. A cosa ci serve la pancia piena di cibo, se non lo digeriamo? Se esso non si trasforma in noi? Se non ci fa crescere e non ci rende più forti?». Ecco, dunque, un programma fuori dalla contingenza e dalle politiche di bilancio. Costruiamo, non solo metaforicamente, nuove aule. Frequentate da tutti e in cui tutti, ciascuno secondo il proprio metabolismo, hanno l’opportunità di digerire il cibo della mente e di trasformare, come sostiene Luigi Berlinguer, i contenuti di sapere e conoscenza in esperienze di formazione d’identità, di progetto individuale o di adattamento a situazioni sempre nuove. Si tratta di una sfida epocale. Di un grande programma politico. Che riguarda il modo in cui faremo cultura, svilupperemo un’economia sana e sostenibile. In una parola, il modo in cui ri-creeremo la democrazia con quella «risorsa infinita» che è la conoscenza.
L’Unità 11.05.14