Tra le figure del Vasari che assistevano potenti dalle pareti affrescate della sala dei Cinquecento, il dibattito tra i potenziali candidati alla guida della Commissione europea ha dato il senso di qualcosa che ancora non è ma che forse si comincia a intravedere. È quell’Europa politica da tanti evocata, che resta fuori dal disegno costituzionale europeo, ma si fa largo nella prassi, non senza forzature rispetto a un sistema istituzionale che non prevede alcuna elezione diretta. Il confronto che si è tenuto ieri a Firenze è un passo avanti che non si può non cogliere. Ma per sconfiggere il populismo che spaventa le urne di tutta l’Unione serve che l’Europa diventi innanzitutto uno spazio dove si possa lavorare con soddisfazione, uno spazio economicamente florido e capace di crescere, rilanciando la sua industria e la sua capacità produttiva.
Matteo Renzi, nel suo discorso, ha fatto bene a mettere questa priorità tra i primi punti. Ha affermato la centralità della manifattura. E ha colto nel segno quando ha sottolineato l’esigenza di regole comuni, a cominciare dal lavoro.
Ma il problema è come tradurre questi obiettivi in realtà. Su questo Renzi, con la presidenza europea, si troverà da luglio ad avere una responsabilità diretta. Il semestre italiano coinciderà con una fase di interregno per le altre istituzioni europee, un vuoto di potere che potrebbe offrire alla presidenza del più giovane premier d’Europa una finestra di opportunità in più. Non va sprecata.
Serve allora una strategia complessiva che ieri nel discorso di Renzi ancora non emergeva.
C’erano le priorità e c’era la passione. Non c’era ancora la strategia. Non era forse neppure la sede adatta, ma se una strategia per il semestre c’è, è bene che cominci ad emergere.
L’errore da evitare è quello di porre le giuste priorità, a cominciare dalla questione del superamento dell’austerità, come una trattativa bilaterale, come un do ut des tra gli Stati o, peggio, tra l’Italia e i Paesi mediterranei, da una parte, e i Paesi del Nord dall’altra. Partire lancia in resta per chiedere il rilancio degli investimenti e l’allentamento dei vincoli di bilancio sarebbe il modo migliore per condannare la presidenza italiana all’irrilevanza.
La questione della crescita e del lavoro riguarda l’Europa tutta e come tale va posta. Non c’è quello che l’Italia chiede, c’è quello l’Europa, per sé (cioè per tutti), deve fare. Le riforme europee per la crescita sono una questione comune, una questione multilaterale, che come tale va affrontata. E in questo contesto c’è anche quello che devono fare i singoli Paesi, a cominciare dalla Germania, che è più indietro di altri sul fronte, per esempio, dell’integrazione di mercato e dell’energia.
Ma la crisi dell’euro ha dimostrato che è l’assetto stesso della governance economica europea a dover essere rimesso in gioco. Qui un leader come Renzi, cha ha dimostrato di saper giocare e vincere la sua partita contro i conservatorismi in Italia, può e deve giocarsi la sua partita.
Come ha scritto Sergio Fabbrini su questo giornale la distinzione tra la politica monetaria sovranazionale e la politica economica intergovernativa non può essere conservata. Quest’ultima si è rivelata una continua prova di forza tra Paesi ricchi e poveri, Stati del Nord e del Sud, indebitati e no. Un confronto che ha ingessato il continente, che ha avuto forse un vincitore parziale e temporaneo, ma che ha trasformato l’Europa nella zavorra della crescita del mondo.
Renzi farebbe bene a porre con chiarezza, all’esordio della presidenza italiana, un programma di convergenza verso l’obiettivo di un governo politico dell’eurozona. Un governo legittimato dal Parlamento e con la forza di intervenire sulla politica fiscale europea, fuori dal braccio di ferro intergovernativo, che si è rivelato piuttosto una gabbia di ferro per coloro che, come l’Italia, pur avendo la forza industriale, non hanno la forza politica per la difesa del proprio interesse economico.
Quei quattro leader che ieri si sono confrontati a Firenze come fossero i candidati di una elezione politica nazionale sono il segno che gli europei sono pronti a questo passo. Così come nelle parole di Renzi, poco prima, l’Europa è tornata ad essere un progetto giovane per giovani europei. Per un giorno le sciocchezze del populismo nostalgico della Lira sono emerse per quello che sono: sciocchezze. Sarà anche responsabilità dell’Italia e del suo premier dimostrare che c’è davvero un’Europa in grado di archiviare quei populismi, ridando agli europei una politica per la crescita e il lavoro.
Il Sole 24 Ore 10.05.14