attualità, politica italiana

"Cosa succede se usciamo dall’euro", di Tito Boeri

C’è una domanda cui tutti i detrattori dell’euro, soprattutto quelli più violenti sul web, si rifiutano di rispondere: come si fa ad uscire dall’euro? Ammesso e niente affatto concesso (ne abbiamo già discusso su queste colonne) che convenga farlo, cosa accadrebbe durante la transizione dall’euro alla nuova/vecchia lira? Sarebbe davvero rapida e indolore come ci fanno pensare coloro che si ostinano a non volerne parlare? Bene partire dalla prima domanda, quella su come si può
uscire. L’EUROPA non sarà certo un esempio di democrazia, ma in tutti i paesi con l’euro c’è una maggioranza di cittadini a favore della moneta unica, come certificano i sondaggi Eurobarometro condotti a fine 2013, dopo 7 anni di crisi. L’uscita dall’euro sarebbe, invece, profondamente antidemocratica, come la nostra entrata in guerra cent’anni fa: senza un voto del Parlamento, scavalcato dalla decisione del re di rompere la posizione di neutralità assunta sin lì dal nostro paese nella Prima Guerra Mondiale. Come allora, sarebbe un atto d’imperio, un Consiglio dei ministri straordinario, convocato di notte, a decretare l’uscita dell’Italia dall’euro, mentre in via Capponi negli stabilimenti della Zecca di Stato si stampano segretamente i biglietti in lire. Ci sveglieremmo sapendo di non poter più utilizzare in Italia le banconote che oggi portano la firma di Mario Draghi, soppiantata magari dal busto di Colombo, come nelle mille lire del Regno d’Italia. Si fantastica di referendum per decidere, ma impossibile istruire un processo democratico di scelta che abbia una qualche probabilità di decretare l’uscita dall’euro, senza rischiare di metterci tutti di fronte al fatto compiuto. E una volta paventata l’uscita dall’euro, non potremmo, per molto
tempo tornare indietro.
Il fatto è che uscire dall’euro comporta una forte svalutazione della lira rispetto al tasso di cambio con cui siamo entrati nella moneta unica. È proprio il rilancio dell’export associato a questa svalutazione l’argomento forte di chi vuole l’uscita dall’euro. Nell’ultima svalutazione di cui ci ricordiamo, quella del 1992, la lira arrivò a deprezzarsi del 66% nei confronti del marco. Questa volta la svalutazione potrebbe essere ancora più forte, ma poniamo che anche solo si fermi al 50%. Chi vive in Italia e ha portato i propri risparmi in un paese rimasto nell’euro oppure chi ha investito in titoli di emittenti esteri o ancora ha prelevato tutto quello che poteva dal proprio conto corrente infilando le banconote sotto il materasso, vedrebbe raddoppiare il valore di queste somme rispetto a chi ha tenuto i soldi nel conto corrente o investito in titoli di stato e azioni di imprese italiane. Per questo motivo, la prospettiva fondata di un’uscita dall’euro è in grado di scatenare una massiccia fuga di capitali all’estero, vendite di titoli di stato e azioni e obbligazioni emesse da aziende italiane oltre che prelievi dai conti correnti per evitare conversioni forzose dei propri risparmi in lire al tasso di cambio arbitrariamente fissato dal governo. Questo sceglierebbe, molto probabilmente, il livello in cui siamo entrati nell’euro (1936 lire per un euro), onde scongiurare l’esplosione del debito pubblico, anche se un euro viene valutato sul mercato come 2900 lire. Per contenere queste fughe, registrate anche in Grecia nel maggio 2012 quando si è parlato seriamente di uscire dall’euro, il governo potrebbe introdurre restrizioni ai movimenti di capitale, chiudere la Borsa e limitare l’accesso ai conti correnti. Se avete amici argentini o ciprioti, chiedete loro cosa significhi non poter prelevare soldi dai propri conti correnti per mesi. Perdere liquidità significa non poter reagire a imprevisti, oltre a complicarvi non poco la vita quotidiana.
Le restrizioni ai flussi di capitali limitano l’arrivo di beni importati dall’estero, penalizzando le forniture alle imprese e le opportunità di consumo delle famiglie. Sono aggirabili soprattutto da chi ha redditi elevati, il che rende ancora più iniqua un’eventuale uscita dall’euro. Rappresentano poi la confessione dell’incapacità di un paese di rimanere nella comunità economica internazionale al pari degli altri, dunque alimentano una crisi di fiducia nei confronti di chi le introduce. Con un debito pubblico al 133%, l’uscita dall’euro e il ripudio del debito diverrebbero a quel punto una strada obbligata anche prima di aver democraticamente deciso. E ci sarebbero fallimenti bancari,
forse anche fuori dal nostro paese dato che l’esposizione del governo e delle banche tedesche verso l’Italia vale più del 10 per cento del loro prodotto interno lordo, in Francia si arriva a un quinto del reddito nazionale, in Austria, Belgio e Olanda non si è lontani dal 10 per cento.
Tutto questo senza tenere conto del rischio di contagio, del fatto che altri paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna) possano venire travolti dall’uscita dell’Italia. A quel punto interverrebbe il fondo salva-stati, ma solo per loro, dato che noi siamo usciti dall’Euro se non dall’Unione Europea (unica possibilità di uscita unilaterale sin qui contemplata). Tra l’altro, nella propaganda degli antieuro continua a venir data l’informazione errata secondo cui abbiamo dovuto versare 125 miliardi per alimentare i fondi salva stati e questo ci ha impedito di finanziare i sussidi di disoccupazione o tagliare le tasse. La verità è che, a seguito della costruzione dei due fondi salva-stati (EFSF e ESM) e degli interventi sin qui attuati, è aumentato, e di 58 miliardi, non già il disavanzo, ma il nostro debito pubblico lordo (a fronte del debito, c’è un credito di pari ammontare, è come se avessimo fatto un investimento che alla fine potrebbe anche farci guadagnare). Ora, se scatenassimo una nuova crisi senza precedenti in Eurozona per via della nostra decisione unilaterale di uscire dall’euro, probabilmente non rivedremmo più i 14 miliardi che dobbiamo in tutto versare per dare un patrimonio all’ESM. E c’è anche il rischio che le garanzie offerte debbano almeno in parte essere onorate, obbligandoci a versamenti che, al nuovo tasso di cambio, ci costerebbero il doppio di prima. Il tutto per salvare altri paesi. Chiamatelo recupero di sovranità!
I tempi della transizione dall’euro alla lira non sarebbero brevi. Non si tratta di una semplice svalutazione. Chi si ostina a proclamare che esistono precedenti storici di paesi che decidono unilateralmente di uscire da una unione monetaria fa riferimento a situazioni del tutto incomparabili, come quelli delle ex-colonie, dall’Algeria che si distacca dalla Francia a Capo Verde che si separa dal Portogallo oppure a paesi economicamente molto piccoli, come le Isole Salomone che si distaccano dall’Australia, per avere effetti globali e comunque con una quantità molto bassa di moneta in circolazione e un sistema bancario sottosviluppato. Oppure ancora ci si riferisce al frequente abbandono di regimi a tassi di cambio fissi, un evento che non ha nulla a che vedere con la sostituzione di tutte le monete in circolazione e con la ridenominazione in lire di tutti i contratti in essere di famiglie e imprese (mutui, assicurazioni, buoni postali, etc.) e l’inevitabile contenzioso con operatori esteri in un’economia fortemente integrata nel commercio internazionale come la nostra. Come ci spiega Marcello Esposito su lavoce.info, ci sono voluti tre anni per sostituire le vecchie lire con l’euro e non ci vorrebbe molto meno tempo per fare il contrario, creando enormi problemi alle transazioni soprattutto in un paese con scarso sviluppo della moneta elettronica e dominato da piccoli esercenti e piccole imprese come il nostro. Per non parlare del rischio che chi ha posizioni di monopolio approfitti del cambio di moneta per aumentare i prezzi facendo finta di nulla.
La transizione sarebbe dunque lunga e costosa, soprattutto per chi ha i redditi fissi e poco liquidi, a partire dai pensionati, oltre che profondamente antidemocratica. Per arrivare poi dove? I tanti problemi del nostro paese hanno a che vedere con l’economia reale. Quando il motore è in panne, non serve un nuovo libretto di circolazione. Chi oggi sostiene che uscendo dall’euro si cresce di più, attribuisce alla moneta virtù taumaturgiche. Sono gli stessi che, poco fa, tuonavano contro l’economia di carta. L’unica spiegazione possibile è che vogliano sostituire le banconote con il silice, le conchiglie oppure il tabacco, come durante la guerra di secessione americana.

La Repubblica 08.05.14

1 Commento

I commenti sono chiusi.