Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma questo momento si chiama adesso e questo posto, forse, si chiama Italia. Non il Sudamerica degli allarmi sociali quotidiani e della spaventosa violenza di strada, non il Brasile delle favelas che sta per ospitare un
Mondiale pieno di paura. L’Italia, invece. Dove in un normale sabato di sport può capitare di essere colpiti da un proiettile vagante, cosi, nel mezzo di una passeggiata. Dove si può rischiare la vita per niente quando la vita vale, appunto, niente.
L’incredibile pomeriggio dell’Olimpico ha ancora molti punti immersi nel buio, i confini tra pura violenza e calcio malato si confondono, ma quanto si sa è abbastanza. I colpi di pistola, gli agguati, le imboscate, le bombe carta, le lame. I ricatti degli ultras, i giocatori e la parte sana del pubblico in totale ostaggio dei violenti: quelli che alla fine decidono se si possa giocare oppure no, e non è certo la prima volta che succede. Chissà se il capo del governo, allo stadio insieme alla famiglia, avrà preso appunti. Chissà se l’emergenza forse senza ritorno in cui è precipitato il nostro sport più popolare avrà posto nell’agenda del premier.
Il calcio è da troppo tempo una zona franca, senza legge, anzi senza la legge dello Stato: quella dei delinquenti e dei teppisti conosce invece giurisdizione piena. Se questo è il clima, se questa è la giungla, è logico che le bestie la facciano da padroni. Sanno di essere impuniti, e agiscono non solo dentro lo stadio ma più spesso fuori, dove la criminalità comune e quella da stadio si fondono e approfittano del caos. E forse è ora di annullare le differenze, di smetterla con i distinguo: perché quei criminali sono una cosa sola, un’identica sporca razza.
Lo Stato è storicamente sconfitto perché non ha saputo isolare, combattere, identificare e punire: i Daspo sono carezze, con un buon avvocato si neutralizzano, e mai una volta che si riesca davvero a spezzare la dinamica del branco. Nessuna punizione è un vero deterrente, la massa cieca governata dai peggiori ha sempre la meglio, grazie anche alla complicità di molti club sotto ricatto. Oppure, peggio, conniventi.
La legge del circo (quando muore il trapezista, entrano i clown) ha stabilito dalla sera dell’Heysel che si deve giocare ad ogni costo. Ragioni di ordine pubblico, le chiamano. Ma questa diventa un’arma per i delinquenti: sanno che lo spettacolo non finisce mai, qualunque cosa facciano. È stato triste, oltre che intollerabile, assistere alla finale di Coppa Italia nell’eco delle bombe carta, dopo la grottesca “riunione” tra calciatori e curve. Già visto pure questo, sempre all’Olimpico, nella sera di quel derby in cui gli ultras decisero che non si doveva giocare e basta, nonostante la notizia del ragazzino morto fosse per fortuna falsa. Comandano loro, e basta. E noi, invece, qui a discutere dell’arbitro.
In questo posto che si chiama Italia, un posto sbagliato, sarebbe normale se la gente normale decidesse di non rischiare la vita per una partita di calcio, e facesse altro. Ma sarebbe ancora più normale se uno Stato normale riuscisse a proteggere e tutelare normalmente la vita, la salute e la libertà delle persone. Altrimenti è ferito a morte lui.
La Repubblica 04.05.14