Il Prefetto di lungo corso schiarisce la voce e la dice come se volesse levarsi un peso: «Guardi, ha ragione il senatore Luigi Manconi quando dice che una parte della Polizia italiana è malata. Io aggiungo che lo è non da oggi, purtroppo. Non è certamente maggioranza ed è ragionevolmente lontana dal diventarlo. Ma è tutt’altro che numericamente indifferente. Direi che un 20, 25 per cento del Corpo mostra segnali inequivocabili di… come vogliamo chiamarlo?… scollamento democratico, frustrazione patologica, smarrimento, rancore. E Rimini è solo una tappa di questo percorso. Non è stata la prima, come è noto. E non sarà l’ultima. Perché la forza di questo contagio è importante». Esistono dunque “due Polizie”. Che vestono la stessa divisa ma coltivano un culto diametralmente opposto della Costituzione e della legge. «C’è chi la “serve” e per questo se ne considera sottoposto — osserva amaro il Prefetto — C’è chi se ne ritiene depositario, custode, interprete e dunque, sostanzialmente immune. È la Polizia che non si lascia processare, che si ritiene orfana di una dirigenza e di una Politica capace di rappresentarla e insieme guidarla. Che della riforma di trent’anni fa non ha conservato e non intende conservare nulla».
Per un giorno, l’applauso di Rimini fotografa questa verità con la geografia delle sigle sindacali e l’antitesi dei loro argomenti. Da una parte il Siulp, il Silp-Cgil, il Siap, l’Anfp (Associazione nazionale dei funzionari di Polizia), vale a dire la storica tradizione del sindacato nato con la riforma della Polizia nel 1981 e la sua smilitarizzazione. Dall’altra il Sap, il Consap, il Coisp. In altre parole, la rappresentanza sindacale di destra cresciuta nei numeri e nella capacità e peso di interlocuzione nel ventennio berlusconiano.
Si incrociano così, quasi a fornire una rappresentazione plastica di un Corpo scisso, voci antitetiche. Quelle di chi ricorda il «rispetto della vita come irrinunciabile » (Siulp) e sente l’obbligo della dissociazione (il Silp), perché «la Polizia è al servizio di tutti i cittadini e le sentenze si rispettano» (Siap). «Perché si applaudono gli eroi e non i condannati» (Anfp). E quella, al contrario, di chi rivendica il senso e il significato della standing ovation di Rimini (Sap), definisce «ignobili» le parole del senatore Manconi perché «esiste il diritto ad appoggiare umanamente chi ha pagato più gravemente del dovuto» (Coisp), fino ad avanzare una richiesta immediata, le dimissioni del Capo della Polizia (Consap).
Certo, gli acronimi sindacali non sono una guida agevole alla sostanza delle cose. Ma i loro numeri, ad esempio, qualcosa suggeriscono. Dei 100 mila poliziotti italiani, oltre 18 mila iscritti al Sap si riconoscono nell’applauso solidale a chi ha ucciso Federico Aldrovandi. E quel numero sale a 30 mila se si considerano gli iscritti di Consap e Coisp, che del resto insistono su una stessa base di “consensi”. È una Polizia che ha una sua terra di origine, diciamo pure un suo humus — l’Emilia Romagna, il Polesine, il Nord-Est — e suoi reparti di elezione: celere, squadre mobili, reparti volanti. Lo Stato che lavora e vive in strada. «Non vorrei passare per “sempliciotto” — dice un dirigente di polizia emiliano — ma Bologna, l’Emilia, hanno conosciuto la Uno Bianca. Qui, in queste terre, ad un certo punto ha ripreso forma il fantasma di una Polizia che, sbagliando, credevamo di aver seppellito con la Riforma. Ora, Federico Aldrovandi è stato ucciso a Ferrara. E Ferrara, da almeno due anni, è diventata l’epicentro di campagne sindacali che hanno poco a che fare con il merito di quella vicenda, ma molto con una certa cultura dell’essere poliziotti». Che parla alla pancia dell’apparato. Che attecchisce rigogliosa dove il terreno si è fatto fertile.
Raccontano in proposito che recentemente gli uffici del Viminale abbiano segnalato al Capo della Polizia, Alessandro Pansa, un dato statistico significativo. Che tra i poliziotti sia diventata la norma, nel mese di settembre, la cessione del quinto dello stipendio per fare fronte all’acquisto di libri dei propri figli. Senza contare gli stipendi congelati da cinque anni, il blocco del turn-over, l’età media di quanti sono in servizio che ormai sfiora i 50 anni. Emanuele Fiano, responsabile Pd per la Sicurezza, dice: «I poliziotti vivono e stanno vivendo la crisi due volte. Prima come cittadini, poi, come volto dello Stato nelle piazze in cui la crisi assume la forma della protesta, del conflitto. Se la sinistra non comprende che questo problema ci riguarda e anche molto, il problema si farà sempre più serio».
In questo spazio altamente infiammabile, chi ha invece lanciato da tempo un’Opa è stata appunto la destra. O, meglio, una delle due destre. Quella che oggi si riconosce in Berlusconi e in ciò che si muove a destra di Forza Italia. L’idea di poter passare all’incasso vellicando il ventre molle degli apparati, la loro esasperazione, ha modificato e sta continuando a modificare il linguaggio e i modi di una delle due Polizie e dei sindacati in cui si riconosce. Valga per tutti proprio la vicenda del Sap, dove l’ex segretario Nicola Tanzi ha pagato per la sua “moderazione”. La scommessa, a quanto pare, è sfruttare la debolezza di Angelino Alfano, il solco mai colmato aperto con gli apparati nella vicenda Shalabayeva e la diffusa percezione che prima che ministro dell’Interno sia innanzitutto un segretario di partito. E ancora, far leva sulla difficoltà oggettiva di un Capo della Polizia che, a differenza di chi lo ha preceduto, non è vissuto come espressione interna del Corpo, ma come uomo di mediazione stretto da troppe compatibilità. Non per nulla, la platea del congresso Sap di Rimini poteva o forse doveva diventare la sua Waterloo, se non fosse arrivata la decisione di lasciare la sala prima che questa si abbandonasse alla sua standing ovation.
La Repubblica 01.05.14