Laurearsi conviene. In Italia abbiamo ancora troppo pochi laureati. Non è vero che i laureati sono più disoccupati dei diplomati. Sono queste le tre più significative evidenze empiriche che emergono dalle più recenti ricerche dedicate ai laureati e in particolare dal primo Rapporto sullo stato dell’università e della ricerca in Italia realizzato dall’Anvur. Accanto a queste evidenze non bisogna mai dimenticare che negli ultimi anni è stato sottratto all’università italiana un miliardo di euro, mettendo a serio rischio la possibilità di offrire un servizio universitario di qualità.
Molti continuano a criticare la riforma del “3+2”, che ha evidenti limiti. Ma non c’è dubbio che oggi, grazie a questa riforma, si laurea il 30% in più degli immatricolati rispetto a dieci anni fa. Anche gli altri Paesi hanno fatto importanti passi avanti e quindi l’Italia continua a restare indietro: siamo il penultimo paese in Europa per numero di laureati. Senza un incremento dei finanziamenti, legato strettamente alla valutazione e alla premialità, il nostro Paese perderà strutturalmente capacità competitiva.
La valutazione diventa allora uno strumento di rilancio dell’università e di “rottura” dello status quo perché permette di collegare le policies alle performance degli atenei. In concreto significa premiare chi realizza effettivi miglioramenti.
Molti ritengono che la strategia della valutazione penalizzi il Sud e lasci indietro le università più deboli. Non è così: il finanziamento che arriva alle università del Sud è inferiore rispetto al Centro-Nord, ma se guardiamo i dati con attenzione scopriamo che la causa di questo squilibrio è da addebitare in prevalenza, più che ai minori finanziamenti statali, alle ridotte tasse universitarie. Nonostante che al Nord l’università costi di più, 25 giovani meridionali su 100 scelgono di “emigrare” per trovare condizioni di studio migliori. Chi resta al Sud invece, spesso abbandona già al primo anno di università.
Questa è la sfida da cogliere per rivedere le strategie e le politiche di attrazione delle università meridionali. E anche per mettere in sicurezza i bilanci e realizzare piani pluriennali di rientro rispetto ai deficit. Al Sud esistono, sia nella ricerca che nella didattica, significative punte d’eccellenza da cui partire per rilanciare l’università meridionale.
I risultati del Rapporto Anvur ci offrono informazioni preziose che non devono restare sulla carta. Occorre migliorare decisamente l’offerta didattica, sfoltire ulteriormente i corsi e tagliare i rami secchi. Puntare decisamente sulla gamba che manca, le lauree professionalizzanti (anche attraverso un bando nazionale sul modello di Campus One che valorizzi la collaborazione tra università e imprese). Nei Paesi più avanzati la formazione terziaria professionalizzante assorbe il 25% degli iscritti. Da noi è quasi inesistente. Lo stesso vale per i dottorati: ogni anno 12mila giovani laureati brillanti vincono borse di dottorato, ma solo 2mila all’anno, dopo una gavetta che può durare anche dieci anni, potranno aspirare a entrare nei ruoli accademici. Mentre nel mercato del lavoro è sostanzialmente assente una figura che in molti altri Paesi è davvero strategica per le imprese: il PhD. È urgente predisporre percorsi di formazione dei dottori di ricerca che li preparino anche alla carriera extra-accademica. Lo si può fare utilizzando il nuovo strumento del dottorato industriale, in stretto collegamento con le aziende.
Insomma, anche da noi l’università può e deve diventare un efficace volàno per far crescere il Pil. È fondamentale affrontare due temi per il futuro dei nostri ragazzi. In primo luogo, mettere in campo efficienti servizi di placement, anche nell’ambito del nuovo programma “Garanzia Giovani”, facendo del tema dell’occupabilità dei laureati un criterio premiale nel finanziamento delle università. La disoccupazione giovanile è imputabile per un buon 40% all’incapacità di realizzare un efficace sistema di transizione scuola-università-lavoro. In secondo luogo, è tempo di affrontare il deficit di orientamento che spinge molti ragazzi a scelte sbagliate. Ben il 10% degli iscritti all’università cambia facoltà dopo il primo anno. I nostri giovani stanno in panchina per 18 anni, si allenano a scuola e all’università, ma non entrano mai nel campo del lavoro. E senza aver mai lavorato si ha più paura di uscire dal sistema educativo. Non a caso, solo un terzo degli studenti è in corso nelle nostre università.
Le soluzioni che hanno successo sono note: più partnership con le imprese, più percorsi professionalizzanti, più apprendistati, più tesi di laurea in azienda. Chi si iscrive all’università deve essere accompagnato costantemente, altrimenti i tassi di abbandono aumenteranno ancora. Abbiamo poi necessità di guardare alla competitività dei nostri atenei e renderli più attrattivi verso studenti e docenti provenienti dai Paesi più avanzati. Non è più tollerabile che i ricercatori di Paesi evoluti, a causa delle complicazioni burocratiche dei visti, subiscano un trattamento da clandestini.
Il miglioramento dell’università è una responsabilità di tutti. Anche noi imprenditori dobbiamo fare di più: già molte imprese investono in modo significativo nelle università e riescono a valorizzare le competenze di laureati e dottori di ricerca. Ma non basta. Nei Paesi più evoluti il ceto imprenditoriale svolge un ruolo trainante per lo sviluppo universitario e la sua internazionalizzazione. Una più concreta collaborazione tra le imprese e gli atenei è certamente un asset fondamentale per la crescita e lo sviluppo.
Vicepresidente Confindustria Education
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La nuova sfida: studiare in azienda
Al via le alleanze fra atenei e imprese per l’alto apprendistato avviato dal decreto scuola
di Gianni Trovati
Nel panorama dei numeri che provano a misurare la febbre dell’università italiana, c’è un dato che campeggia: è quel «23%» scritto nel rapporto Anvur alla voce «studenti che abbandonano» i corsi prima di arrivare alla laurea. Messo accanto al 21,2% di studenti che rimangono iscritti, ma che in un anno non ottengono nemmeno una quota minima dei 60 «crediti formativi» previsti da ogni piano di studi, il dato fotografa un’ampia fetta di popolazione universitaria disorientata, che spesso abbandona gli studi e va a infittire quella disoccupazione giovanile raddoppiata negli ultimi sei anni.
Se questa è indubbiamente la malattia più grave della nostra università, non mancano però i possibili rimedi, e i laboratori in cui si stanno studiando vaccini in grado di invertire la tendenza e offrire nuove occasioni. Uno di questi vaccini è scritto dal novembre scorso nella legge di conversione del “decreto scuola” (legge 128/2013, articolo 14, commi 1-ter e 1-quater) e punta sulle alleanze fra università e imprese per realizzare «progetti formativi congiunti» durante i quali lo studente svolga «un adeguato periodo di formazione presso le aziende» e ottenga per questa via fino a 60 crediti. Tradotto, è il rilancio dell’alto apprendistato, che in Francia e Germania coinvolge decine di migliaia di giovani all’anno e in Italia si è fermato nel 2012 a quota 234 persone (142 nella sola Lombardia; si veda anche Il Sole 24 Ore del 9 aprile).
Il rilancio, naturalmente, non si costruisce in un giorno, perché per realizzarlo bisogna ripensare l’offerta formativa, intrecciare rapporti più strutturali e costanti con il mondo dell’impresa, e far conoscere uno strumento che fa a pugni con uno dei luoghi comuni più consolidati (e sbagliati) fra studenti e famiglie: quello per cui «prima si studia, poi si lavora».
Fra le imprese, ovviamente a partire da quelle grandi, l’interesse è elevato, e le ragioni sono evidenti. Per capirli basta dare uno sguardo, per esempio, alla Telecom: l’età media della popolazione aziendale è di 48 anni, l’80% è concentrato nella fascia di età 48-54 anni, una fascia di 30enni nel middle management è quasi assente e i tempi d’oro delle scuole aziendali, non solo in Telecom, sono finiti da un pezzo. Ovvio che in un quadro come questo bussare alle porte degli atenei sia un passaggio inevitabile, e infatti Telecom ha “sponsorizzato” master in più università, dai Politecnici di Milano e Torino alla Federico II di Napoli, e dottorati, e nei progetti 2015-2017 l’alto apprendistato in università può rivelarsi una pedina importante. Finmeccanica nei mesi scorsi ha fatto partire un maxi-progetto per l’inserimento di giovani nelle varie società del gruppo (si chiama «Mille giovani per Finmeccanica», ma l’obiettivo parla di 1.500 inserimenti) ed è stata inondata in tre mesi da quasi 57mila candidature, e 25mila sono state preselezionate per gli step successivi. Enel, che ha avviato un nuovo piano di apprendistato per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole superiori, sta collaborando con il Politecnico di Milano per la costruzione di percorsi di master condivisi. E le università?
«Partiamo da un dato – osserva Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano –: il primo obiettivo dell’università oggi è contribuire allo sviluppo occupazionale, e lo può fare fornendo formazione coerente con i bisogni del mondo produttivo, sviluppando imprese in prima persona con i progetti di start up e facendo innovazione insieme alle aziende del territorio. In questo quadro, l’alto apprendistato è senza dubbio uno strumento utile».
Non per tutti, naturalmente, perché una condizione per il successo di queste iniziative dipende anche dalla selezione delle platee di studenti a cui si rivolge. «La nostra scelta – prosegue Azzone – è di progettare insieme sia la formazione sia la ricerca con partner strategici, come Ibm o Eni, o come Enel con cui stiamo sviluppando un corso di laurea specifico. In questo lavoro condiviso è essenziale avere un progetto strutturato e interessante anche per gli studenti».
«E non è semplice – aggiunge Angelo Riccaboni, rettore a Siena -, perché occorre una forte determinazione sia da parte degli atenei sia da parte delle imprese». Quando le condizioni ci sono, però, si arriva al traguardo, come sta accadendo per la convenzione con il Monte dei Paschi che offrirà contratti di appredistato agli studenti delle lauree magistrali in Management e Governance, Finance ed Economia e gestione degli intermediari finanziari dell’ateneo senese. Del tema, poi, si sta cominciando a occupare la Fondazione Crui, guidata dallo stesso Riccaboni, che nelle prossime settimane farà partire un Osservatorio sui rapporti fra università e impresa e inizierà i propri lavori dal capitolo dedicato all’alto apprendistato.
Le condizioni per riempire di contenuti le nuove regole varate a fine 2013, insomma, ci sono, anche se le norme, seguendo una prassi quasi costante in questi anni di finanza pubblica difficile, spiegano che le università devono attuare i progetti «nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente». Fondi aggiuntivi, insomma, non ce ne sono, ma anche in questo contesto difficile si potrebbe pensare a incentivi “indiretti”, per esempio sul turn over oppure sui vincoli di utilizzo delle risorse che costellano la normativa degli ultimi anni, per invogliare l’impegno degli atenei nell’alto apprendistato: nelle iniziative di successo, in grado di avviare nuovi percorsi professionali per gli studenti, il rapporto costi/benefici sarebbe sicuramente positivo.
Il Sole 24 Ore 28.04.14