Il terzino del Barcellona Dani Alves ne ha raccolta una lanciata dagli spalti per insultarlo. L’ha mangiata e la sua squadra ha vinto in rimonta. Ora quello sberleffo ai “buuu” dei tifosi è diventato un simbolo. E una campagna sul web con lo slogan “siamo tutti scimmie”. Siccome l’ironia e l’intelligenza sono più contagiose della stupidità, adesso tutti mangiano banane. E con le banane si fanno fotografare: è il selfie della banana, ultimo grido contro il razzismo. Nel mondo del calcio e non solo, oggi si sta tutti dalla parte del brasiliano Dani Alves del Barcellona, il più forte terzino destro del mondo, al quale un incauto imbecille e tifoso del Villarreal (identificato ed espulso a vita) ha tirato una banana prima che Dani calciasse un corner. Ma lui, grandissimo, invece di indignarsi o andare dall’arbitro piagnucolando, ha raccolto il frutto, l’ha sbucciato e se l’è mangiato, tirando il calcio d’angolo mentre ancora masticava. (Per la cronaca, e siccome le banane contengono potassio, il Barcellona che in quel momento era in svantaggio per 2-1 ha poi vinto 3-2).
Nella stagione del razzismo da stadio più becero, dei cori contro Napoli e a favore del Vesuvio, delle curve chiuse per punizione (inutile) e dei “buuu” contro i calciatori di colore, a tutte le latitudini e in tutte le categorie, campionati giovanili compresi, il gesto di Dani Alves rappresenta una specie di rivoluzione culturale. Il sorriso in risposta ai denti digrignati, lo sberleffo invece dello schiaffo. Potrebbe fare scuola, giudicando le reazioni planetarie che ha suscitato. In Brasile, la terra di Dani Alves, quella banana diventa il manifesto dei prossimi mondiali. L’ha detto persino la presidente Dilma Rousseff: «Mostreremo a tutti che la nostra forza, nel calcio come nella vita, è legata a una diversità etnica di
cui siamo orgogliosi».
La reazione a catena, grazie all’immediata potenza del web, è enorme. Molti colleghi di Dani Alves si sono fotografati con l’ormai simbolica banana, di cui Andy Warhol sarebbe fiero: Aguero, Fred, Mertens, Hulk, Willian, Oscar, David Luiz, la campionessa Marta, l’altro brasiliano Neymar che ha pure lanciato l’hashtag #somostodosmacacos, siamo tutti scimmie. A occhio, una mobilitazione simile potrebbe essere più efficace di qualunque sanzione, e forse di qualche moralismo un po’ troppo serioso. Anche se c’è chi, come Mario Balotelli, che in questi anni ha ricevuto da molte curve avversarie il coro “Non ci sono negri italiani”, ritiene sia più giusto glissare: «Contro certa gente, l’unica risposta è l’indifferenza». «Ma ai mondiali ci sarà tolleranza zero, i razzisti non s’illudano», proclama Sepp Blatter, presidente Fifa e gran capo del calcio.
«Vivo in Spagna da undici anni e non è cambiato nulla», spiega adesso Dani Alves, forse inconsapevole – nel momento dello spuntino – del gesto clamoroso, di inaudita forza di rottura. «A che serve fare drammi? Meglio ridere di questi ritardati, e comunque la banana mi ha dato una bella sferzata di energia ». Di sicuro, l’ha data al mondo dello sport. Il citì azzurro Prandelli si è fatto fotografare insieme a Matteo Renzi e all’emblematico frutto, Cécile Kyenge si complimenta: «Quel ragazzo è stato bravissimo, bisogna sempre battersi contro il razzismo con eleganza e fantasia ».
L’ex campione brasiliano Roberto Carlos ha scelto Twitter, ricordando quando la banana la tirarono a lui: accadde in uno stadio russo. E il portale brasiliano Globesporte ha capito il peso del collegamento tra quella banana e la prossima coppa del mondo: «Qui non ci sono bianchi, neri, gialli, ma abbiamo tutti il dovere di essere dello stesso colore. L’intolleranza fa più danni della corruzione. Comunque, oggi siamo tutti scuri di pelle, con gli occhi luminosi e i capelli ricci», cioè l’identikit di Dani Alves. «Un ragazzo fantastico, allegro», racconta il suo vecchio allenatore Pep Guardiola. «Il razzismo nel calcio è un problema culturale, in parte ne siamo tutti un po’ responsabili».
Le radici della vergogna sono gramigna. Tra i primi a subirla, nel nostro calcio, il peruviano Uribe, che in un lontanissimo Verona-Cagliari (1982) ricevette una banana dalla curva sud dei veneti. Ne sa qualcosa anche Clarence Seedorf, attuale allenatore del Milan, che quando giocava nell’Inter venne insultato dai tifosi laziali in una finale di Supercoppa. L’ex rossonero Kevin Prince Boateng lasciò invece il campo della Pro Patria, a Busto Arsizio, dopo avere patito cori razzisti in un’innocua amichevole di metà settimana: calciò il pallone contro gli spalti e se ne andò. Non solo dal campo: oggi gioca in Germania, a Gelsenkirchen, senza rimpianti. «L’errore più grave, con il razzismo, è ignorarlo», dice. «Perché è come un’infezione per la quale non esistono antibiotici, bisogna andare alla fonte e combatterla».
Lo sport spesso aiuta a non sentirsi soli. Come quando il diciottenne nigeriano Akeem Omolade, attaccante del Treviso (serie C1) dileggiato dai propri ultrà neonazisti vide tutti i suoi compagni entrare in campo, la domenica successiva, con i volti dipinti di scuro. Però non è facile prenderla così. L’ivoriano Zoro, del Messina, insultato da alcuni ultrà interisti si mise a piangere, e solo l’intervento di Adriano lo convinse a non abbandonare la partita. «Il calcio è lo sport più popolare al mondo e riflette la società in cui fiorisce, i suoi valori, la sua passione, ma sfortunatamente anche i suoi pregiudizi e le sue paure»: è il pensiero di Michel Platini, oggi presidente dell’Uefa, colui che ha preteso che sulle magliette di Coppa i giocatori portino la scritta “respect”.
«In Europa, molti considerano noi africani come animali, e non parlo solo di calcio», afferma l’ivoriano Yayà Toure, statuario centrocampista del Manchester City. Forse non solo in Europa, se il patròn dei Los Angeles Clippers (qui si parla di basket), Donald Sterling, ha appena detto: «Non voglio neri alle mie partite», scatenando addirittura la reazione di Obama («Incredibile, ci tocca ancora lottare contro i residui dello schiavismo») e l’impeccabile, conciso commento di Michael Jordan: «Disgustoso».
«Nessuno può capire il dolore di essere chiamato scimmia», racconta invece Lilian Thuram, ex campione francese di Parma e Juventus, da sempre impegnato contro il razzismo e autore di un libro molto bello, “Le mie stelle nere” (Add editore). «Neri non si nasce ma si diventa, per colpa degli sguardi degli altri. A me accadde quando arrivai in Francia a nove anni. La banana e gli ululati sono pura violenza, è un problema culturale e allora bisogna ripartire dai bambini. Il razzismo nel mondo occidentale esiste eccome ».
Perché oggi abbiamo tutti un cuore nero, come ha detto la conduttrice televisiva spagnola Marilò Montero, naturalmente mangiando una banana in diretta: «E poi, siamo noi bianchi ad essere di colore: pensate a quando ci viene l’itterizia e diventiamo gialli, oppure quando ci facciamo rossi per la vergogna». Eccolo, l’unico modo sensato che avrebbero i razzisti per diventare, pure loro, di colore.
La Repubblica 29.04.14