Nel quarantennale del referendum abrogativo del 1974, i dati più recenti indicano una lieve inversione di tendenza. E forse non si tratta (solo) di matrimoni meglio riusciti, ma della necessità economica di rimanere “separati in casa”. Sono trascorsi appena 43 anni, poco più della metà della vita media di un italiano. Per gli storici è un battito di ciglia, eppure è difficile persino ricordare cosa voleva dire per uomini e donne pronunciare quel sì “finché morte non vi separi” prima del 1° dicembre 1970, quando il divorzio entrò nel nostro ordinamento giuridico. Fu un fatto rivoluzionario, che ha cambiato per sempre i costumi matrimoniali e familiari in Italia. Ma anche un fatto tutt’altro che pacifico, all’epoca.
Tra pochi giorni, il 12 e 13 maggio, ricorre l’anniversario del referendum abrogativo del 1974, voluto dalla Chiesa e dalla Democrazia Cristiana, per cui si recò alle urne quasi il 90% dell’elettorato. Vinse il No, sostenuto dai partiti di sinistra e laici e dal movimento femminista, e la norma fu salva. Quella norma che ancora oggi permette a mogli e mariti di cambiare idea sul loro progetto di vita insieme.
Questo, almeno sulla carta. Perché se il ricorso al divorzio tra gli italiani è andato continuamente crescendo dagli anni ’70, i dati più recenti indicano un’inversione di tendenza. E forse non si tratta (solo) di matrimoni meglio riusciti. Guardiamo attentamente il trend degli ultimi 20 anni. Secondo la ricerca Istat del 2012 Separazioni e divorzi in Italia, nel 1995 si contavano 158 separazioni e 80 divorzi ogni 1.000 matrimoni, nel 2011 il numero sale a poco meno del doppio per le separazioni (311) e a più del doppio per i divorzi (182).
Però attenzione, perché già nel 2011, l’ultimo anno della rilevazione, si intravede una lieve flessione negativa: dopo anni di netta crescita, le separazioni e i divorzi si mostrano sostanzialmente stabili, anzi il numero dei secondi diminuisce dello 0,7% rispetto all’anno precedente. Se guardiamo all’anno successivo, le statistiche giudiziarie indicano un trend ancora in diminuzione. Le separazioni consensuali, dal 2011 al 2012, scendono del 3,2 per cento, da 68.363 a 66.187, mentre quelle giudiziali (in cui non c’è accordo tra i coniugi) diminuiscono del 13,6 per cento, da 36.730 a 31.740. I divorzi consensuali (37.188) calano del 3,6 per cento, mentre quelli giudiziali (17.990) dell’11,8.
Che sta succedendo? Le donne e gli uomini italiani hanno imparato a scegliersi meglio e sopportarsi di più? O semplicemente il calo di separazioni e divorzi corrisponde a un calo nei matrimoni? Forse né l’una né l’altra ipotesi. In realtà, se guardiamo ancora agli anni 2011 e 2012, scopriamo che i matrimoni sono in lieve aumento. E la tendenza alla diminuzione degli ultimi vent’anni, secondo l’Istat, è stata in media dell’1,2 per cento, quindi minore rispetto all’attuale calo dei divorzi.
Anche l’ipotesi di un’armonia crescente tra le coppie non convince molto: gli avvocati matrimonialisti rivelano anzi quanto sia diffusa la conflittualità, magari aggiornata ai tempi del web 2.0. I dati diffusi nel corso del recente convegno nazionale dell’Ami, l’associazione dei matrimonialisti italiani, rivelano che il 30 per cento dei casi di separazione giudiziale avviene per colpa di tradimenti che nascono su social network e in chat. Forse anche per questo le separazioni sono molte di più al Nord (più cablato) che al Sud? Ma un simile divario suggerisce anche un’altra lettura, cioè che dietro l’apparente solidità dei matrimoni si nasconda lo zampino della crisi economica. E che tanti mariti in realtà dormano sul divano, separati in casa.
Già, perché divorziare costa. I coniugi che si separano devono, innanzitutto, provvedere a mantenere due case, e se c’era una casa di proprietà spetterà a uno solo dei due: nel 57,6 per cento dei casi è assegnata alla moglie (anche perché la casa segue i figli, che più spesso restano ad abitare con la madre), nel 20,9 per cento al marito, nei casi restanti i due cercano una nuova abitazione. Tante coppie, al momento del divorzio, hanno anche il mutuo ancora da pagare.
Così, scopriamo da un’indagine Demoskopea, 18 donne separate e 28 uomini separati su 100 cento pagano ancora le rate mensili. Poi ci sono gli assegni di mantenimento, che secondo l’Istat riguardano il 19 per cento delle separazioni e sono quasi sempre corrisposti dal marito. In media si tratta di 500 euro, una cifra che impatta enormemente su stipendi risicati come quelli attuali. Infine, naturalmente, ci sono le spese legali, per procedimenti che si protraggono per anni.
La durata del divorzio è da sempre un tema caldo. Oggi devono trascorrere almeno tre anni di separazione legale dopo i quali si può fare istanza di divorzio, e l’iter giudiziario può durare anche più di dieci anni. Per questo aumenta il cosiddetto “turismo divorzile”, cioè le coppie (8mila negli ultimi 5 anni secondo l’Ami) che risolvono la situazione in pochi mesi rivolgendosi a un altro paese europeo.
In Italia, invece, i tanti disegni di legge presentati per accorciare la procedura si sono puntualmente arenati in Parlamento. L’ultimo in ordine di tempo è quello di Alessandra Moretti, deputata Pd, che propone un iter di 12 mesi a partire dall’inoltro della domanda, ridotto a soli 9 mesi se la separazione è consensuale e non ci sono figli.
Potrebbe essere la volta buona per il “divorzio breve”.
Ma intanto il timore di queste lungaggini resta uno dei fattori che scoraggiano i matrimoni. Tante sono infatti le coppie che si tengono alla larga da tribunali e avvocati, scegliendo una soluzione “leggera” per la propria vita insieme. Coppie di fatto che, dice l’Istat, sono più che raddoppiate tra la fine degli anni ’90 e oggi.
Tra queste ci sono anche quelle che chiedono non di poter serenamente divorziare, ma di potersi ufficialmente sposare, e sono le unioni di persone dello stesso sesso. Per loro, in Italia, gioie e dolori del vincolo coniugale appaiono ancora un miraggio. Sarà come dice il proverbio: il matrimonio è un porto di mare, chi è dentro vuole uscire e chi è fuori vuole entrare. Ma nessuna delle due cose sembra poi tanto facile.
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