Negli ultimi anni, il tema della partecipazione politica è stato al centro di un ampio dibattito che, partendo dal progressivo calo della partecipazione elettorale registrato nelle ultime tornate elettorali, ha riguardato le diverse misure che possono essere adottate per incoraggiare i cittadini a prendere parte alla vita politica del Paese. All’interno di questo dibattito cosa s’intende per «partecipazione»? Possono essere considerati partecipativi soltanto alcuni comportamenti come l’esercizio del voto o la militanza in un partito (entrambi in costante diminuzione negli ultimi anni) oppure anche quanti «discutono» di argomenti politici o si impegnano in ambiti informa- li? Secondo quanto si allarga o si stringe il campo di osservazione i risultati cambiano profondamente.
Se si analizza solo la partecipazione elettorale, il calo registrato negli ultimi anni è evidente e segnala un generale deterioramento del processo partecipativo. Ma se si osservano altri indicatori, come l’interesse a informarsi o a seguire i di- battiti politici, a discutere con amici e parenti o a intervenire sui social network, i risultati sembrano suggerire l’opposto, cioè una crescita della partecipazione. È evidente come una democrazia compiuta, seppur imperfetta ma perfettibile, tenda a far crescere entrambi gli indicatori di partecipazione, ponendo alla base di questo processo di rafforzamento proprio la quota di cittadini informati che precostituiscono, almeno teoricamente, forme più militanti e attive. Ma quando la partecipazione elettorale e militante cala e si vedono crescere altre forme di partecipazione, cosa dovremmo dedurne?
CHI SOFFIA SUL FUOCO
La risposta non è così semplice come suggerisce chi soffia sul fuoco dell’antipolitica, e cioè che man mano che cresce il grado di consapevolezza dei cittadini aumenta la distanza dalla politica. La maggiore conoscenza e informazione, infatti, avrebbe dovuto permettere la selezione di una migliore classe dirigente, producendo un miglioramento del sistema politico nel suo complesso. Così non è stato e negli ultimi anni si è verificato il contrario. La quota calante di partecipazione elettorale e quella crescente di tipo informale hanno dato vita a una classe politica mediocre e meno competente rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Le risposte, quindi, devono essere cercate altrove, negli opposti sistemi che questo pro- cesso sembra aver, complessivamente, prodotto: un «sistema democratico senza consenso» dove i percorsi di democrazia formale, almeno sulla carta, sono pienamente efficienti (ma sempre meno praticati) e un sistema che vive di un «consenso senza democrazia», che si alimenta di pulsioni provvisorie e fluttuanti dove la razionalità del di- ritto può apparire persino un inutile ingombro. Due sistemi che convivono come universi paralleli, fatto salvo che il secondo, com’è del tutto evidente, sottrae quote di democrazia sostanziale al primo mano a mano che prende corpo.
Se è difficile individuare il periodo storico in cui prende avvio il processo che conduce a due regimi politici così diversi, più facile è individua- re gli affluenti che ne hanno alimentato il corso. Almeno quelli principali, perché le ragioni sono molteplici e alcune persino sotterranee e più difficili da individuare in un quadro di evidenza empirica. In questa ipotetica classifica, ai primi posti c’è sicuramente il fatto di credere (e di far credere) che le grandi questioni siano di natura tecnica e non politica. Nel momento in cui si è affermata l’idea che le grandi decisioni possono essere prese sulla base di valutazioni tecniche, è evidente che non c’è più bisogno della politica, dei politici e tanto meno della partecipazione popolare, perché bastano le componenti specifiche. Questo processo ha avuto il suo culmine nel «governo dei tecnici», quando tecnocrazia e burocrazia si sono saldate sopra le competenze tradizionalmente riservate alla politica. Un percorso iniziato alla fine degli anni 80, prevalentemente a livello locale, la cui conseguenza è stata la progressiva tecnicizzazione dei processi di decisione, la burocratizzazione dei sistemi di potere e la depoliticizzazione delle scelte fondamentali.
Un altro aspetto importante, e per molti versi conseguenza diretta della tecnicizzazione della politica, è stata la trasformazione della partecipazione in forme di mobilitazione estemporanee e
provvisorie che riflettono una cittadinanza sempre più sottile e rarefatta. È un fatto che negli ultimi anni, nella misura in cui è aumentata la partecipazione informale e diminuita quella elettorale, le grandi decisioni siano state prese indipendentemente dalla partecipazione di coloro ai quali quelle stesse decisioni erano rivolte.
Meno politica e più tecnica ha significato una progressiva deformazione della democrazia rappresentativa in termini parademocratici, dove il relativismo ha finito per essere una sorta di pre- messa largamente condivisa. Perché nella politi- ca tecnicizzata conta «ciò che è necessario», non «ciò che giusto». Non esistono veri fini, ma solo «pacchetti di issues» legati a procedure che non hanno necessità di obbedire a criteri di valutazione «politica» da parte degli elettori.
SCENARI NUOVI
Un processo che ha progressivamente dato corpo a uno scenario nuovo, il cui protagonista non è più «l’elettore incerto» che per anni ha ispirato la comunicazione politica dei partiti, ma «l’elettore in apnea» al quale la politica tecnicizzata non è stata più in grado di dare risposte.
L’elettore incerto era di confine tra le diverse aree politiche e in cerca di risposte, e faceva la differenza tra un successo o una sconfitta nel momento in cui si sommava allo «zoccolo duro» del consenso più stabile e fedele. L’elettore in apnea – al quale l’innalzamento della complessità sociale prima e la crisi poi, hanno tolto ossigeno – non formula più domande alle quali i partiti non sembrano in grado di rispondere, soffre un deficit di riferimenti nel momento in cui quegli stessi partiti hanno perso il tradizionale radicamento territoriale e tende ad auto-organizzarsi nel tentativo di dare risposte ai suoi problemi più contingenti.
Può sembrare del tutto fuori tempo, oggi, prospettare modelli alternativi rispetto a un sistema che appare ampiamente egemone. Ma finché il cittadino non smarrirà la sua natura sociale, conseguentemente la politica non finirà di svolgere il suo ruolo di governo della società. Per questo, anche se inespresso o sottaciuto, si sente il bisogno di una politica che torni a essere «agenzia di senso», capace di dare risposte più politi- che e meno tecniche alla società degli imperfettamente distinti.
L’Unità 28.04.14