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«Pompei bene mondiale», di Luca Del Fra

Pompei: eppur si muove? Nominato soprintendente a gennaio, insediatosi solo a marzo a seguito di varie polemiche, Massimo Osanna non è un dirigente del Ministero per i beni e le attività culturali ma un professore associato di archeologia dell’Università della Basilicata. Alla sua competenza e alla sua energia è affidata la più rognosa grana della storia del patrimonio culturale, lo straordinario sito archeologico vesuviano, da anni al centro di un malefico intreccio: incuria, interessi economici più o meno trasparenti, incompetenze e ritardi della politica, lentezze burocratiche.

Lanciato tre anni fa, il Grande progetto Pompei doveva affiancare la soprintendenza per utilizzare 105 milioni di euro di fondi europei, finora ha stentato a partire; nel frattempo gli interessi si sono fatti più aggressivi: anche a causa della crisi economica Pompei con i suoi finanziamenti fa gola. Perché sulle falde del Vesuvio si gioca una partita pesante, da cui dipende la credibilità del sistema pubblico della tutela.
Professore Osanna, vi siete resi conto che siamo ai tempi supplementari?
«Ne sento personalmente la responsabilità, Pompei è divenuta lo specchio della cultura italiana, il simbolo negativo. Ci sono tanti altri siti, altrettanto splendidi, con gli stessi problemi a cominciare dai crolli: eppure nessuno ne parla».
Come risponderete?
«Sul campo: le soprintendenze hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale, ma devono aprirsi, evolversi, allargare le loro competenze all’archeologia globale».
Faccia un esempio.
«Pensiamo al rapporto tra archeologia e paesaggio. A Torre di Satriano ho diretto lo scavo di una reggia fatta costruire da un principe locale nel VI secolo avanti Cristo. Grazie all’apporto di specialisti di vari settori abbiamo ricostruito il paesaggio che la circondava. Intorno alla reggia non c’era una città come ci si aspetterebbe, ma pascoli di pecore, quindi pecunia, il potere economico che veniva dal controllo delle vie della transumanza e delle greggi. Intorno ai pascoli, i campi di grano e poco più oltre i boschi. Abbiamo dunque restituito non solo i resti di un edificio, ma un modello di società e di antropologia».
Ma a Pompei gli scavi già ci sono, ed è difficile gestire quanto è alla luce?
«Bisogna ristudiare da capo quello che è stato scavato evitando nuovi scavi. Anche perché le tecniche conoscitive dell’archeologia in questi anni sono molto cambiate. Da una parte conoscere meglio il sito aiuta a mantenerlo in vita, dall’altra una seria e attraente divulgazione scientifica porterà il pubblico ad amarlo ancora di più. Pompei è un caso eccezionale per molti motivi: dalla sua fondazione nel VI secolo si sono sovrapposte civiltà e culture molto diverse. Quella etrusca, che aveva una comunità a Pontecagnano, quella greca, presente a Cuma e naturalmente quella romana. L’interesse per l’incrocio e il meticciato di culture è un portato del nostro tempo».
Servono però competenze e specialisti di ogni tipo: come pensate di trovarli?
«Sì, paleobotanici, archeozoologi, studiosi, storici, geologi, esperti del patrimonio culturale. Appena arrivato ho detto subito che apriremo le porte alle università a agli istituti di ricerca, che lavoreranno sul sito coordinati dalla soprintendenza».
E a livello internazionale?
«Per questo sto organizzando anche un primo incontro di specialisti di vari settori dal titolo Pompei oggi e domani, l’idea è invece allargare le competenze anche a livello internazionale, creando un comitato che segua e periodicamente controlli i restauri, l’andamento del sito, valutando i progetti, dando suggerimenti. Anche perché Pompei non può essere un affare solo italiano: è un patrimonio mondiale, tutelato dall’Unesco».
Allora veniamo ai problemi. L’articolo de «l’Unità» sui recenti e deludenti restauri della domus del Criptoportico che voleva aprire una discussione ha invece scatenato una polemica: quali le vostre reazioni? «Quando è uscito l’articolo mi ero appena insediato: quello che ho fatto è stato prendere tutti i progetti per capire se ci fossero dei problemi. Il primo è che non ci possono essere progetti a pioggia, fatti ognuno da uno specialista, magari bravissimo, ma per conto suo. Alla fine a Pompei ci saran- no cento tipi di coperture diverse: occorrono delle linee guida e un coordinamento generale e anche a questo dovrebbe servire il comitato di lavoro, perché ogni restauro ha delle sue specificità, ma va inserito in un contesto».
Come procede il Grande Progetto Pompei (GpP)? «Fino a maggio noi, cioè la soprintendenza, siamo la stazione appaltante, poi le consegne passano a GpP e al generale Nistri che lo dirige. A noi resterà la manutenzione ordinaria del sito. I nuovi progetti li cureranno la soprintendenza e i tecnici, architetti, archeologi e restauratori del GpP, o ditte esterne. Comunque dovranno essere validati da noi».

E Invitalia che ruolo avrà?

«Invitalia affianca il GpP da un punto di vista amministrativo e potrà fare progetti sulla fruizione, ma non sui restauri».
I fondi dell’Unione Europea, malgrado i ritardi riuscirete a impiegarli nei tempi prescritti?
«A marzo, quando sono arrivato alla Soprintendenza, ho espresso qualche perplessità al riguardo. Con Nistri però abbiamo stilato un cronoprogramma serratissimo per riuscire a utilizzare, e bene, quei fondi».

Ce la farete?

«Cercheremo di farcela».

Sta partendo un Piano della conoscenza dal costo di 8 milioni di euro: non è un po’ tardi, visto che i tempi dei finanziamenti europei scadranno tra pochi mesi?

«I ritardi sono evidenti, ma questa banca dati diagnostica sarà utilissima soprattutto dopo il GpP, per la futura manutenzione di Pompei».
E i lavori per affrontare il dissesto idrogeologico, che secondo molti è la causa dei continui crolli? «Partiti anche quelli, ma non è opera mia: sono iniziati al momento del mio insediamento».

Il GpP, a meno che l’Unione Europea non lo rifinanzi in futuro, dovrebbe concludersi in un paio di anni: sarà un intervento spot o qualcosa di stabile resterà?

«Con il ministro Dario Franceschini stiamo lavorando a questo: dotare la soprintendenza di una serie di figure tecniche, strutturisti, archeologi, geologi, magari presi tra quanti avranno lavorato nel GpP. Ho trovato molta disponibilità».
Professore, a sentire lei a Pompei andrebbe tutto bene…
«Per carità, i ritardi e i problemi sono tantissimi, spesso banali e di facile soluzione: in 60 giorni abbiamo riaperto tre domus bellissime, abbiamo rimesso a posto le cancellate di ferro, cercato di rimuovere quanto più possibile quel nastro di plastica bianco e rosso da cantiere e installare dei dissuasori con le corde. E non le nascondo che negli ultimi giorni mi sto occupando anche di fogne e di liquami».

L’Unità 27.04.14