È stato un 25 aprile nervoso, e questa non è una novità. È almeno dai primi anni Settanta che la festa della Liberazione è (anche) occasione di attrito tra “ufficialità”, vera o presunta.
EVIVACI movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa.
Ma quest’anno il nervosismo ha assunto le forme, davvero molto contemporanee, di uno sbriciolamento tipicamente “local”, che nel nome delle cause più varie, alcune nobili alcune abbastanza stravaganti, ha inteso rivendicare la Resistenza come una cosa propria, indegnamente usurpata dalle varie autorità sui vari palchi cittadini.
A Roma è stata la questione mediorientale a prendersi la scena, con scontri verbali molto aspri tra “brigate ebraiche” e simpatizzanti della causa palestinese, entrambe le fazioni ovviamente arciconvinte di essere “i veri partigiani”. A Torino alcuni No Tav hanno contestato l’Anpi, colpevole di “essere nel Pd”, mentre si sa che “i veri partigiani” eccetera eccetera. A Palermo è stata molto percepibile la causa dei No Muos, che sarebbe (il Muos) il nuovo sistema di puntamento satellitare americano, che comporta servitù militari indesiderate; e pur trattandosi di una lotta del tutto rispettabile e degna di coronamento, non è facilissimo stabilire se e quanto si sia “veri partigiani” a seconda che si sia favorevoli o contrari a un nuovo sistema di puntamento satellitare. A Milano esponenti della Giunta Pisapia sono stati contestati da un drappello di No Canal, contrari al passaggio di un nuovo canale nel loro quartiere. E anche qui si dovrà riconoscere la non immediata identificazione tra le due circostanze, di portata storica piuttosto impari: l’opposizione a un canale artificiale e la liberazione dal nazifascismo.
Già: perché è poi di questo, dopotutto, che si tratterebbe. Il 25 aprile del 1945 vennero liberate dai tedeschi e dai loro alleati repubblichini Milano e Torino; e l’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale proclamò, via radio, l’insurrezione. Per convenzione quel giorno venne considerato dai fondatori della nuova democrazia il più rappresentativo della lotta di liberazione partigiana al fianco degli angloamericani. Ovviamente è del tutto lecito non festeggiarlo, cosa che i nostalgici del regime fascista hanno sempre fatto, e anche buona parte degli italiani di destra che considerano 25 aprile e Primo Maggio “feste comuniste”.
Ma partecipare avocando a sé, alla propria lotta non importa se globale o di cortile, non importa se la più degna o la più insostenibile, la titolarità del verbo “resistere”, oltre a essere leggermente narcisista è un poco sconveniente nei confronti di chi (milioni di italiani) considera il 25 aprile la festa della libertà ritrovata, dunque una festa di tutte le persone libere: punto e basta. Una festa del “noi”, non una festa dell’“io”, che ce ne sono già tante.
Che poi quegli ideali fondativi siano stati onorati oppure traditi, e in quale misura onorati e in quale traditi, è un dibattito decisivo e avvincente; che esistano molte possibili forme di resistenza, alcune del tutto nuove, e la pigra consuetudine democratica non le valorizzi e anzi le inibisca, è pure verissimo; ma insomma, se un giorno all’anno milioni di italiani vogliono festeggiare non “le resistenze”, ma quella Resistenza lì, quella guerra, quella vittoria, la nascita di quella democrazia che poi, con alterne fortune, è ancora la nostra, perché fare di una festa di popolo, cioè di tutti, il proprio cortile politico? Un corteo non è un cortile. In Francia a nessuno verrebbe in mente di salire in groppa al 14 luglio per farsi notare e fare pubblicità alle proprie faccende politiche o alla propria singola lotta. E il 25 aprile è il nostro 14 luglio, il compleanno della nostra libertà. D’accordo, non siamo la Francia. Ma se ci riuscisse, ogni tanto, di essere almeno l’Italia?
da Repubblica