Un Senato? No, 52. Perché sono 52 i progetti di riforma che ingombrano la commissione Affari costituzionali, e ogni testo è un viaggio verso mete esotiche, e nessun viaggio è uguale all’altro.Ma il rischio è di rimanere ametà strada, inchiodatiin un aeroporto di scalo. Succede, quando i voti si trasformano in veti. E conle riforme ci succede da trent’anni. Come nel gioco dell’oca: gira e rigira, ti ritrovi sempre alla stazione di partenza. Scoprendo infine che i partiti nonsono mai partiti, che era tutta una finta, una manfrina. Siccome però a questo viaggio ormai ci abbiamo preso gusto, siccome la riforma del Senato è l’architrave su cui poggia ogni altra riforma economica e sociale, siccome sul nuovo Senato si è scatenata una bagarre, almeno stavolta converrà attrezzarsi.
Attrezzarsi come? Intanto con un vademecum per i viaggiatori: tre avvertenze per le loro partenze.
Primo: la fantasia costituzionale. È una qualità, ma senza esagerare. Resistendo alla tentazione di creare il mondo daccapo ogni lunedì, ma resistendo pure al copia-incolla, alla scimmiottatura delle esperienze altrui. Ogni Paese ha le proprie tradizioni, anche se in Italia la prima tradizione è il tradimento. Dunque bene sui sindaci a Palazzo Madama, benché il Bundesrat tedesco — cui s’ispira il progetto del governo — non ne contempli la presenza: dopotutto i municipi innervano la nostra storia nazionale, a differenza che in Germania. Male, molto male, l’idea bislacca dei 21 senatori nominati dal Colle. Nel Senato attuale equivalgono a due gruppi parlamentari; nel nuovo Senato a ranghi dimezzati peserebbero come quattro partiti. Partiti del presidente, presidenzialisti per definizione. E il capo dello Stato verrebbe tirato dentro suo malgrado nella mischia: un dono avvelenato.
Secondo: i posti (e i quattrini). A quanto pare s’è aperta una gara a chi sa usare le forbici più lunghe; vincerà Caligola, che in Senato ci voleva soltanto il suo cavallo. Ma l’efficienza delle istituzioni dipende anche dal numero dei loro inquilini. Troppi, s’intralciano a vicenda; pochi, non riescono a smaltire l’arretrato. E in questo caso il Senato diventerebbe un costo inutile, pur senza l’indennità dei senatori. Ma infine smettiamola di misurare la qualità della riforma sulla fattura da pagare: stiamo ristrutturando il bicameralismo, non un bilocale.
Terzo: la coerenza, virtù dimenticata. Ce n’è ben poca nei progetti alternativi di chi (come Calderoli) difende con le unghie l’elezione diretta del Senato: se quest’ultimo mantiene la stessa legittimazione popolare della Camera, perché negargli il voto di fiducia sul governo? Ce n’è ancora meno nel testo presentato da Chiti, dove il Senato approva ogni legge che incida sui diritti: in pratica, tutte le leggi. Tanto vale lasciare le cose come stanno, si fa meno fatica. Ma è poco coerente anche la proposta dell’esecutivo, con un’elezione di secondo grado affidata ai Consigli regionali, anziché alle giunte: ne uscirebbe un doppione della Camera, più o meno con la stessa proporzione fra i partiti.
La soluzione? Rafforzare il ruolo di garanzia del nuovo Senato. Inserendovi (per una legislatura) gli ex presidenti della Consulta, della Cassazione, delle principali Authority. Magari aggiungendovi una quota di cittadini estratti per sorteggio fra categorie qualificate: non è un’eresia, lo suggerisce un gruppo di fisici e d’economisti (dopo una simulazione al calcolatore) per migliorare il rendimento delle assemblee rappresentative. Miscelando queste quote con i delegati regionali o comunali. E miscelando altresì le competenze, in aggiunta a quelle concernenti il rapporto fra Stato e Autonomie. Significa attribuire al Senato ogni decisione sulla quale i deputati versino in conflitto d’interesse (dalle immunità alla verifica dei poteri, dalla legge elettorale al finanziamento dei partiti). Significa assegnargli il parere vincolante su tutte le nomine dei dirigenti apicali dello Stato. Ma soprattutto significa costruire una seconda Camera, anziché una Camera secondaria.
da Il Corriere della Sera