Con zelo e buona sorte, quasi tutti gli indicatori dell’eurozona sembrano muoversi nella direzione giusta a un mese esatto dalle temute elezioni europee. Così, sfidando il diffuso euroscetticismo, entra nel dibattito elettorale l’interrogativo se la crisi stia addirittura finendo. In fondo l’economia tedesca sta dando segni di grande vigore e i Paesi confinanti ne ricevono impulso. La Spagna ha chiuso il primo trimestre 2014 con la crescita più alta da sei anni. La Grecia ha un surplus di bilancio maggiore del previsto. Inoltre il Portogallo, come già aveva fatto l’Irlanda, è tornato a finanziarsi sui mercati e vuole uscire dal programma di assistenza grazie a risultati di bilancio migliori di quelli richiesti dalla troika. Quanto ai “mercati” sembrano piuttosto contenti di se stessi.
In effetti i dati sono più controversi e l’ottimismo andrebbe quanto meno temperato. La disoccupazione nei Paesi critici è esorbitante, il livello degli investimenti lontano da quello del 2008. L’ipotesi che le riforme approvate nei Paesi più fragili abbiano modificato il clima di business è da verificare. I debiti pubblici continuano ad aumentare e l’inflazione a restare troppo bassa. Infine rimane il dubbio che se non si consoliderà la ripresa, capitale e lavoro oggi inoccupati vadano persi per sempre e che ciò riduca la crescita potenziale futura, mantenendo instabile l’economia europea.
In fondo la principale strategia di politica economica in atto in Europa è la graduale normalizzazione dei “canali di trasmissione” tra una politica monetaria accomodante e l’economia. La ripresa tedesca più forte del previsto è dovuta anche a condizioni finanziarie delle imprese prive di precedenti. Ma finora nei Paesi più fragili i canali di trasmissione sono rimasti ostruiti. C’è qualche segno di miglioramento, ma i bassi rendimenti e la liquidità della Bce non raggiungono imprese e famiglie. La strategia dunque è stata di mantenere vicino a zero il rendimento dei titoli a breve termine dei Paesi più sicuri dell’area euro, così come avviene negli Stati Uniti e in Giappone.
In tal modo, essendo calata l’attrattiva dei mercati emergenti, gli investitori globali non hanno avuto alternativa se non di cercare rendimenti “normali” nei Paesi della periferia dell’eurozona. L’effetto più vistoso finora è stato quello di ridurre gli spread dei titoli sovrani tra centro e periferia. Ma anche di rafforzare l’euro, con conseguenze restrittive per l’economia. L’obiettivo ora è di trasferire rapidamente la riduzione dei tassi d’interesse al credito bancario favorendo anche la ricapitalizzazione di banche e imprese. Ma il peso dell’incertezza calato sull’area euro da cinque anni grava ancora sulle decisioni di credito delle banche, così come su quelle di consumo e di investimento di famiglie e imprese. Il barometro segna tempo migliore, alcuni indicatori anticipatori non erano così buoni da tre anni, ma ogni giorno che passa la capacità produttiva inutilizzata continua a essere corrosa da una ruggine metaforica.
In un intervento molto significativo, il presidente della Bce Mario Draghi ha elencato ieri tutte le condizioni che ostacolano gli stimoli della politica monetaria. Dal rafforzamento dell’euro ad eventi esogeni sui mercati globali, dai problemi sul mercato del credito a rischi di inflazione troppo bassa. Gli analisti saranno colpiti dall’ipotesi di pubblicazione dei verbali delle riunioni del consiglio della banca, o ancor più dall’eventualità di un allentamento quantitativo in caso di deflazione. Draghi riconosce infatti che la situazione è vulnerabile, uno shock negativo potrebbe far precipitare la spirale debito-deflazione. Non essendoci molta esperienza di calo dei prezzi nelle economie avanzate è utile che l’impegno sia chiaro e preventivo. Con un’analisi dei rischi diventata molto complessa, e con conseguenze asimmetriche tra i Paesi, è utile che la Bce ammetta gradi ulteriori di trasparenza nel dibattito interno della banca.
Ma forse l’annuncio più concreto dell’intervento di ieri di Draghi è che la Bce prefigura nuove operazioni di credito a lungo termine (oltre che di acquisti di titoli) alle banche, a fronte di prestiti realmente effettuati alle imprese. Tra tante, si tratta della misura più coerente. In tal modo anziché trasferirsi solo sugli spread dei titoli pubblici, il basso costo del credito raggiungerà finalmente l’economia. Se ciò non avverrà sarà il turno dell’allentamento quantitativo.
È importante tuttavia che la sequenza cominci presto, perché una condizione di tassi d’interesse bassi ovunque in tutto il mondo non può essere permanente. Le riflessioni della Federal Reserve americana su un’uscita dalle condizioni monetarie eccezionalmente accomodanti sono avanzate, benché ambigue. Se il ciclo dei tassi d’interesse si invertisse, l’afflusso di capitali verso la periferia potrebbe prendere la direzione contraria con velocità imprevedibile.
Il Sole 24 Ore 25.04.14