“Aldo dice 26×1”. All’alba del 25 aprile 1945 al nord risuona dalle radio italiane questa strana formula, metà sciarada, metà misura di mobilità. Invece è la parola d’ordine dell’insurrezione che allerta tutte le grandi città ancora occupate dai nazifascisti, e invita i partigiani di pianura e di montagna a sferrare l’attacco. Con i resistenti armati già operanti in territorio urbano. È Milano la prima ad insorgere e a liberarsi prima dell’arrivo degli alleati. Ma l’invito è rivolto a Genova, Torino, Venezia, Novara, Alessandria, Reggio Emilia, Parma, Modena, città queste ultime dove la Resistenza aveva già preso il controllo dei luoghi strategici importanti.
La formula dice «26», come data massima entro cui insorgere e «1» a indicare l’ora d’avvio. Milano è in anticipo. È il luogo simbolico più importante, sede del Clnai con lo stato maggiore operativo della lotta. E lì è il cuore del Nord. Dove il 16 dicembre del 1944 era tornato Mussolini, per annunciare al Lirico che il nemico sarebbe stato inchiodato nella Valle Padana. Invece Alleati e Partigiani sfondano in primavera la Linea Gotica, dopo aver pagato enormi prezzi da Massa Carrara fino a Nord di Pesaro e passando per l’Appennino insanguinato di rappresaglie. L’ora è arrivata per- ciò e anche l’Unità clandestina parla chiaro: «Insurrezione».
Vale la pena di leggerlo tutto quello strano comunicato, in realtà un telegramma inviato a tutti i comandi di zona partigiani: «Nemico in crisi finale. Stop. Applicate piano E 27. Stop. Capi nemici e dirigenti fascisti in fuga. Stop. Fermate tutte macchine et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette. Stop. Comandi zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et Piacenza- Torino. Stop. 24 aprile 1945». Non è questione di filolgia o di enfasi celebrativa ricordare il dettaglio del dispaccio, da cui vien fuori la parola in codice. Perché nel dettaglio c’è una politica di massa che diventa linea generale, da applicare nei luoghi chiave indicati, entro il giorno 26. Eccola: fare prima, insorgere prima dell’arrivo alleato e imprimere alle cose una dinamica precisa. Un principio di autogoverno nazionale. Nello stesso momento in cui si procedeva insieme agli Alleati, ma senza subalternità.
Quindi precise norme di controllo del territorio, presa di possesso dei punti chiave, eliminiazione dei focolai di contro-resistenza e via libera agli angloamericani nell’inseguire i nazifascisti in fuga. Accorciando così i tempi della guerra che ormai volgeva al termine. Dopo lo sfonda- mento della Gustav e il fallimento dell’offensiva tedesca nelle Ardenne. In Maggio sarebbe tutto finito ma la Resistenza italiana con il suo apporto, militare e civico, imprimeva un suo sugello agli eventi, accorciando la tragedia e risollevando l’onore di una nazione trascinata nel baratro dal fascismo, e dalle colpe della Monarchia. Non senza le annesse istruzioni, a presidiare fabbriche, edifici, ponti, strade e materiale rotabile. Oltre all’onore, venivano messe in salvo le dotazioni del paese non ancora distrutte dalla furia bellica del biennio 1943-45. Cose che avrebbero consentito al paese pur sconfitto, di pagare un prezzo meno amaro alla disfatta e di piantare le basi per ordinamenti civili saldamente democratici e condivisi. Insomma grazie alla Resistenza vittoriosa – politicamente più che militarmente – non ci fu né scenario greco di guerra civile né restaurazione monarchica e conservatrice. E il tutto passando per una alleanza anche con le forze moderate e monarchiche. Contando la «tutela» di chi, come Churchill, avrebbe voluto la continuità con i Savoia e un ruolo puramente ausiliario di partigiani e Cln. Ma come ci si era arrivati a quel «miracolo», che poneva le basi della futura Costituzione e salvava il salvabile di un’Italia in ginocchio?
Almeno due date vanno ricordate al riguardo, ma appartengono all’anno precedente: il 1944. La prima è il 22 aprile 1944: governo di unità nazionale con Badoglio. Che rinvia la questione istituzionale, da risolvere con referendum a guerra finita. E poi, il 31 di gennaio dello stesso anno: il Cln di Roma guidato da Bonomi dà delega al Cln milanese di tramutarsi in Cln alta italia, con dentro comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, liberali, monarchici. Presi- dente Alfredo Pizzoni, liberale. Che rimarrà fino al 27 aprile, per cedere il posto al socialista Morandi. Il Clnai, assumerà ufficialmente il 26 dicembre 1944, il ruolo di «terzo governo», o «governo ombra» nei territori occupati. E come si accennava non senza frizioni con gli Alleati, timorosi di dinamiche rivoluzionarie imprevedibili. Il miracolo sta in questo: la coesione tra forze opposte in quella situazione drammatica e senza collegamenti. Con il paese spossato e spezzato. Ma prima c’è un altro miracolo da ricordare, che fu una vera e propria «invenzione»: la Svolta di Salerno. Annunciata da Togliatti dopo il suo ritorno in Italia il 22 marzo 1944, e concretizzatasi nel primo governo di unità nazionale, con gli obiettivi già visti. La svolta era stata in verità lanciata già a fine settembre 1943 da Ma- rio Correnti – alias Togliatti – tramite Radio Mila- no Libertà, che trasmetteva da Ufa, capitale del- la Baskiria sovietica. E diceva la voce: «Badoglio è il legittimo capo del popolo italiano». Una cosa enorme, rifiutata dall’antifascismo militante, incluso quello comunista. E che crea un’impasse, a partire dal Congresso di Bari – 28-29 gennaio 1943 – che vede il Cln diviso proprio sulla Monarchia e la linea unitaria da seguire. È Togliatti che sblocca tutto, proponendo anche la Luogotenenza di Umberto, insieme all’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Croce la definì «la bomba Ercoli», certo autorizzata dalla «geopolitica» di Stalin, e però tutta farina del sacco di Togliatti. Fu quello «sblocco» a consentire di unire azione armata sul territorio e quadro istituzionale legittimo. Popolo e continuità legale dello stato. Contro il nemico principale e per la Liberazione. Di lì, da quel sangue e da quell’intelligenza, viene il primo stato democratico italiano. Di lì veniamo tutti noi e lì dobbiamo sempre ritornare. A quei princìpi, direbbe Machiavelli. Anche quando immaginiamo futuro.
L’Unità 25.04.14