La Procura di Torino ha chiuso l’inchiesta sul caso Stamina. I reati contestati sono gravi. Si va dall’associazione a delinquere finalizzata alla truffa, alla somministrazione di medicinali guasti e pericolosi per la salute, fino all’esercizio abusivo della professione medica. Come ha dichiarato il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: ce lo aspettavamo. Anche se la presunzione di innocenza vale per tutti e potranno essere solo i giudici a verificare la fondatezza di queste accuse, non certo lievi.
Noi possiamo – anzi, dobbiamo – chiederci: com’è potuto accadere? Com’è potuto accadere che una presunta terapia senza alcuna base scientifica sia stata somministrata in un (prestigioso) ospedale pubblico e, a un certo punto, su ingiunzione della magistratura? Com’è potuto accadere che il «metodo Stamina» sia stato applicato nello scetticismo e, anzi, contro il parere della comunità scientifica internazionale?
Le risposte possibili a queste domande sono molte. Alcune sono hanno una natura, per così dire, culturale. In fondo siamo il Paese del «siero Bonifacio» e del «metodo Di Bella». E già due secoli fa il giovane Giacomo Leopardi ammoniva sui pericoli associati alle superstizioni e agli errori popolari non solo degli antichi, ma anche dei moderni. C’è una specificità italiana nella coazione a ripetere questi errori. Va detto, però, che nessun Paese può dirsi immune da simili peccati.
La ricerca delle cause seconde, tuttavia, ci porterebbe troppo lontano. Meglio fermarsi alle cause prime che hanno consentito per così tanto tempo a così tante persone di dare credito a una proposta terapeutica senza basi scientifiche. Non corriamo dietro alle colpe individuali, che pure ci sono e non sono marginali. Ma cerchiamo di individuare le cause di sistema. Quelle che, appunto, da Bonifacio a Vannoni, fanno cadere il Paese con periodica sistematicità nei medesimi errori.
Possiamo individuare almeno tre di queste cause prime. Una è la mancanza di un’istituzione tecnico-scientifica che sia – e, soprattutto, sia riconosciuta come – un ente terzo, autorevole e indipendente, cui demandare, in maniera automatica, la soluzione di problemi medici controversi, quando essi sorgono. Non assolvono a questo compito né l’Agenzia nazionale del farmaco (Aifa) né il Comitato Nazionale di Bioetica (Cnb), né una sovrapposizione tra i due. Non solo e non tanto per limiti intrinseci. Ma anche e soprattutto per mancanza di chiarezza giuridica. Occorre che il legislatore apprenda dallo studio del caso Bonifacio, del caso Di Bella, del caso Vannoni e indichi con chiarezza (con assoluta chiarezza) chi è titolato a fare cosa. E lo doti degli strumenti necessari.
Una seconda causa risiede certamente nella tendenza, piuttosto diffusa nel nostro Paese, a quella che potremmo definire «esondazione istituzionale». Enti, strutture, ordinamenti, poteri dello Stato che confliggono tra loro e – in mancanza di chiarezza o (le due cose non sono affatto in contraddizione) per un ipertrofico e perverso intreccio di leggi e leggine – tendono a occupare il terreno altrui. Non è possibile che siano dei magistrati a decidere se una terapia può essere somministrata o no. Ma non è possibile neppure che i magistrati non abbiano un interlocutore certo e obbligato quando si trovano a dover assumere decisioni in campi così delicati. Non è possibile neppure che un ospedale si trovi a dover decidere se e come applicare una terapia non validata senza poter (dover) interloquire con un organismo scientifico terzo e autorevole. Occorre, in definitiva, trovare canali di comunicazione istituzionale oleati e obbligati. Occorre, in altri termini, che il Paese e, in particolare, lo stato si doti di una robusta cultura medico-scientifica.
Tuttavia anche la comunità medica allargata e la comunità scientifica devono fare uno sforzo. Uno sforzo organizzato. Non è possibile – non è giusto – che le famiglie siano lasciate sole ad affrontare drammi di portata immensa, qual è quello di avere un bambino malato grave in casa. Nessuno di noi, se lasciato solo, è in grado di prendere decisioni laceranti. Queste famiglie hanno bisogno della massima solidarietà. Non solo di quella spontanea di amici o volontari. Ma di una solidarietà organizzata. Che si faccia carico di tutto il loro disagio e fornisca tutto l’aiuto possibile per gestire ciò che non è gestibile. Queste famiglie hanno bisogno di amore. Anche dello Stato. Anche della comunità medico-scientifica. Senza amore c’è solo disperazione. E con essa l’umana disponibilità ad affidarsi al primo che passa, se quel primo che passa spaccia qualcosa che somiglia alla speranza e, appunto, all’amore.
L’Unità 24.04.14